I DODICI MESI DELL’ANNO

Scritto il 08 Gennaio 2025 da Virginia Gidiucci

Nel 1972 Guccini compose quella che, a mio avviso, è una delle più belle canzoni del panorama musicale italiano, inserita nel disco “Radici” il cui titolo anticipa il filo conduttore dei brani. La “Canzone dei dodici mesi” è un campione di poesia pura, con un arrangiamento semplice ma di grande effetto e con un cantato tanto espressivo da lasciare un peso non indifferente nell’ascoltatore. Sono due le grandi ispirazioni artistiche che hanno influenzato il cantautore per la realizzazione del brano, una decorazione scultorea ed un’opera letteraria. La prima è il “Ciclo dei mesi”, un gruppo di bassorilievi medievali che si snodano lungo gli stipiti della parte interna della Porta della Peschiera, nella facciata principale del Duomo di Modena. Il ciclo rappresenta contadini e nobili ritratti durante le diverse attività stagionali. L’altra ispirazione dell’autore è rappresentata dalla “Corona dei Mesi” o “Sonetti de’ mesi” di Folgóre da San Gimignano ; l’opera si compone di quattordici sonetti scritti in volgare toscano tra i primi due decenni del XIV° secolo che rientrano nel genere del plazer, ovvero un elenco di attività piacevoli sviluppate in base alle caratteristiche di ogni singolo mese.

La celebrazione delle mensilità e la loro identificazione nelle attività agricole che scandivano la circolarità dell’anno solare è alla base di quello che possiamo considerare un “reperto storico” della tradizione contadina di tutta l’Italia centro‐meridionale e che ha lasciato traccia anche nella memoria del nostro territorio. Questa traccia, già labile a metà del secolo scorso, nel nuovo millennio minaccia la scomparsa totale a causa delle pochissime testimonianze che l’hanno traghettata fino a noi.

Una descrizione dell’usanza ci è data dalla trascrizione del brano tradizionale ad opera dell’importante studioso maceratese Domenico Spadoni, che la inscrive tra gli usi legati all’avvento del nuovo anno nelle campagne marchigiane del XIX° secolo. Il Capodanno, ieri come oggi, è stato sempre vissuto come un passaggio tra vecchie speranze e nuove intenzioni, un periodo breve ma intensamente sentito in cui ognuno crea per sé stesso dei propositi di miglioramento che, nel giro di pochi giorni, lascia il passo alla consapevolezza che la vita, come il corso naturale delle stagioni, continua sempre allo stesso modo.

Racconta lo storico: “Un villano morrovallese, residente ora a Macerata, mi raccontava che a Morrovalle era costume fino a poco tempo addietro di andare cantando per le campagne, prima della Pasquella, i Mesi dell’anno, in comitive di tredici persone, ciascuna con qualche oggetto agricolo simboleggiante il relativo mese. La tredicesima persona rappresentava l’Anno” (Spadoni; 1966). Spadoni trascrive integralmente il testo del canto dialettale senza correzioni, riportando la forma “con cui mi è stata detta a memoria da chi la cantò in sua gioventù:

Io so’ Gennaro, che sto accanto al foco,
brillo l’arrosto e faccio un bel gioco
e lu cocio per questi signori:
fra gli altri mesi io sono il migliore.

Io so’ Febbraro, che godo il sereno,
rompo li geli e la terra rimeno,
non mi guardate che sono il più zoppo.
Fra l’altri mesi io sono il migliore.

Io sono Marzo e so’ più sventurato,
che della carne non ho mangiato,
quisti signori me l’ha comandato:
povero Marzo sventurato!

Io sono Aprile,
il più vago curioso e gentile,
per sentire il mio ‘cello cantare,
giovani e vecchie fa rallegrare.

Io sono Maggio e sono il più bello,
che di fiori ho adornato il cappello,
l’ho adornato fra rose e fiori:
fra l’altri mesi io sono il migliore.

Io sono Giugno, che meto il grano,
meto li monti e meto lu piano,
e lu meto per tutta la popolazione,
e credo che fra l’altri mesi io sono il migliore.

Io sono Luglio, che spulo il grano
E porto rastello, la pala e il forcone,
che per spulare ‘spetto aguilone,
e lo spulo con tanta allegria:
da dieci rubbia rimane la sia.
Arritorno da campolazzo (?)
Da dieci rubbia arriva a quattro.

Io sono Agosto e so’ il più galante,
seco li fossi e taglio le piante,
se qualche contadino non avesse vangato,
il più grosso poltrone sarebbe chiamato.

Io so’ Settembre e so’ il più cortese:
a poveri e ricchi gli faccio le spese
e porto la mela, la pera e fichi e aranci e limoni:
fra gli altri mesi io sono il migliore.

Io sono Ottobre che coglio dell’uve
E fanno del vino;
fra l’altri mesi questo è il più fino.

Io so’ Novembre e semino del grano
E semino li monti e semino il piano.

Io so’ Dicembre:
dinanzi mi coce e da reto me ingenne.
E scortico capre e capretti e caproni;
fra l’altri mesi io sono il peggiore.

Io sono il padre di dodici figli 
E tutti e dodici sono mortali,
e l’ho campati fra rose e fiori:
io sono il padre di dodici figli.” (ibidem)

Una descrizione ancora più accurata ce la offre De Angelis, esponendo l’usanza che nel maceratese si sviluppava nel lasso di tempo tra il Capodanno e l’Epifania ed approfondendone l’abbigliamento e l’atteggiamento dei tredici personaggi partecipi di quello che può essere definito, più che un canto di questua come quelli della Pasquella, una goliardica mascherata beneaugurante per il nuovo anno agricolo. Oltre alle strofe sopra citate, il richiamo alle caratteristiche emblematiche nell’immaginario rurale dei dodici mesi dell’anno si sviluppa molto sull’aspetto estetico dei figuranti e sugli oggetti “di scena”, utili al riconoscimento istantaneo del carattere impersonato.

“Gennaio vestiva da cuoco e recava con sé un coscio di agnello arrostito. Febbraio era munito di una vanga e vestiva da contadino. Marzo aveva in mano un cavolfiore ed un baccalà asciutto, esprimendo così la quaresima. Aprile invece non aveva che una gabbia con dentro degli uccelli come a simbolo della primavera. Maggio di bianco vestito, con grande cappello di paglia infiorato, ricordava il mese dei fiori. Giugno possedeva una falce ed un mazzo di spighe di grano verde. Luglio, un tridente e un rastrello. Agosto, una bottiglia di vino, alla quale ogni tanto sommessamente poneva le labbra. Settembre vestiva da donna, co un cesto di frutta (uva, mele ecc.). Ottobre aveva un sacchetto di grano alle spalle, che di tanto in tanto spargeva al suolo, indicando così la semina. Novembre, uno scaldaletto. Dicembre si accontentava di un piccolo tronco di albero, senza fronde” (De Angelis; 1940).

Alighiero Castelli inserisce nel periodico “Vita popolare marchigiana”, di cui è stato anche direttore, la trascrizione di una testimonianza orale del canto proveniente da Castel Trosino che intitola “Carnevalata ascolana”, la quale si sviluppa prevalentemente nel contado piuttosto che nel contesto cittadino.

“Io sono un patre co’ dodici figghie,
e tutte dodici sono immortali:
so’ ritornate co’ rose e co’ gigghie,
povere patre co’ dodici figghie!

I’ so’ gennare che sta cante al foche,
gire l’arroste e faccio un bel gioche:
gire l’arroste pe’ questi signore,
fra l’altri mesi io sono il migliore.

I’ so febbrare che guarde al serene,
rompe ‘l gele e la terra remane:
che me ‘mporta se so’ febbrar curte,
se me mette so’ mugghi de tutte.

I’ so’ marze che so’ sventurate,
io non ho mai de carne mangiate:
sempre de brode me so cibate,
puovere marze disventurate!

I’ sono aprile che so’ più gentile,
arbere e frutte li facce fiurire:
a sentire li uccelli cantare,
giovane e vecchi li fo rallegrare.

I’ so’ magge che so’ lu più belle,
fior de rose urnite al cappelle:
me ne vade co’ cante e co’ suone,
fra l’altri mesi io sono il migliore.

I’ sono giugno che meto lu grane,
meto li monte, le coste e li piane:
pe ma’ porte nu brave falcione, 
tra l’altri mesi io sono il migliore.

I’ so’ lughie che tresca lu grane,
tresco il monte, le coste e li piane:
pe ma’ porte nu bravo forcone,
fra l’altri mesi io sono il migliore.

I’ so’ agoste, rifonde le botte,
piccole e grosse li rifonde tutte:
ghie lu levo quello feccione,
fra l’altri mesio io sono il migliore.

I’ so’ settembre ca sono cortese,
povere e ricche ghie facce li spese:
poi vi do ‘n’ abbondanza de tutte,
povere e ricche consolali tutte.

I’ so’ ottobre che sèmine l’grane;
semine sopra li coste e li piane:
pe ma’ porte ‘nu brave accettone,
fra l’altri mesi io sono il migliore.

I’ so’ decembre che so’ sventurate,
a lu foche me sono attaccate, 
a lu foche me sono attaccate,
povere decembre disventurate!” (Castelli; 1896)


Il corpo del testo risulta quasi identico a quello riportato dagli studiosi del maceratese, cambiando solo nel dialetto in cui viene trascritto e in qualche piccola variazione di termini che non modifica il senso comune dei canti. Una versione identica a questa è riportata da Elvira Felci nella sua tesi di laurea sulla poesia popolare ascolana; qui il “Canto dei mesi” è fedelmente trascritto dalla testimonianza di “Tommasina Fazzini, casalinga, di Ascoli Piceno, che ha assistito, quand’era bambina, ad una mascherata di dodici mesi” (Felci; 1946/47).

Come anticipato all’inizio di questo approfondimento, questa tipologia di canti tradizionali ricorre in molte regioni di Italia, soprattutto al centro e nel sud della penisola dove, in qualche località, sono stati recentemente ricostruiti al fine di portare avanti la tradizione nei piccoli centri abitati rurali. Secondo Piccioni, i canti sarebbero “una traccia dell’antica commedia dell’arte sopravvivente nella cultura popolare italiana” (Piccioni; 2014).

Non si sa con esattezza quando questa tradizione sia scomparsa del tutto, con molta probabilità dal secondo dopoguerra in poi nessuno partecipò più alla mascherata e le parole dei canti si persero nella memoria di chi andò avanti.

Il termine “carnevalata” adottato da Castelli allude al fatto che il canto era recitato esattamente durante il periodo del Carnevale, pur mantenendo le stesse caratteristiche di quelli già descritti per l’inizio del nuovo anno. Avevo già accennato di questo nell’articolo dedicato ai Carnevali storici delle marche (https://occhiodeisibillini.com/blog/stralunari/il-carnevale-dalla-tradizione-popolare-al-patrimonio-storico-marchigiano), che riprenderò arricchendolo di nuove comparazioni e documenti storici nei prossimi mesi. Anche qui, per comparazione, vorrei arricchire questa raccolta di canti tradizionali dei dodici mesi con la descrizione dell’usanza nell’Abruzzo del XIX° secolo che ricalca perfettamente quelli marchigiani precedentemente elencati. Questa viene descritta come la mascherata più antica della tradizione carnevalesca abruzzese, interpretata come di consueto da tredici personaggi che rappresentano i dodici mesi disposti in circolo con al centro l’anno, ciascuno portando in mano un simbolo che lo distingue dagli altri.

“I’ so’ gennaro che godo il sereno,
che gelo l’acqua e induriscio il terreno.
Fra gli áutri misci so’ lu chiù grosse,
gelo l’acqua alli fiumi e alle fosse.

I’ so’ febbraro e sto ‘ccanto al foche,
vôto l’arruste e commerso co’ gioche:
e commerso con chisti signori:
tra gli áutri misci i’ so’ lu migliore.

Marze, marze sbinturate!
Che de carne ‘nn’ ha ‘ssaggiate: 
co’ li bróccoli s’è cibate;
povere marze sbinturate!

I’ so’ abrile lu chiù gentile,
tutti gli árveri faccie fiorire:
e gli aucelli faccie cantare,
gióvene e viecchie faccio allegrare.

E i’ so’ magge e so lu chiù biélle,
porto le rose a lu cappiélle:
ce le porte, ca so’ nu guappone:
fra gli áutri misci i’ so’ lu chiù buone.

I’ so’ giugne che mete le grane,
mete pe’ valle, pe’ monte e pe’ piane;
e lo mete tutte le semmane:
i’ so’ giugne che mete le grane.
Ovvero:
e le mete che tante persone,
fra gli áutri misci i’ so’ lu chiù buone.

Tutti gli misci avete ludate,
e de luglie ve sete scordate:
porte la pale cul mie furcone, 
pe’ scamare i’ so’ lu chiù buone.

I’ so’ aguste co’ tanta mastría,
e cuntente chidunche se sia:
i’ so’ lu mese che facce furore,
tra tutte gli áutri so’ lu migliore.

I’ so’ settembre molte curtese;
fine le fratte ve fanne le spese.
E tutte quante i’ facce cuntente;
nen dienghe pene, nin dienghe turmente.

I’ so’ uttobre e despense semente,
prepare lu cibu a tutta la gente,
e lu prepare pe’ chisti signore:
tra gli áutri misci i’ so’ lu migliore.

I’ so’ nuviembre co’ la luna mancante,
porto la ronca e l’accetta pesante,
pe’ fa’ le lene a chisti signore:
tra gli áutri misci i’ so’ lu migliore.

I’ so’ deciembre che gele lu viente;
‘nnanze me scallo e ‘rreto me ‘ngenne. 
Dienghe alla gente turmiente e dulore:
tra tutti gli misci i’ so’ lu piggiore.

I’ so’ lu patre de dúdece figlie; e tutti e dúdece so’ murtali:
e tra le rose, carófane e gigli,
i’ so’ lu patre de dúdece figli.” (De Nino; 1881)

A conclusione, vorrei consigliare ai lettori una esperienza dedicata al tema trattato: la visita allo spettacolare Duomo di Modena che, oltre al ciclo scultoreo dedicato ai mesi dell’anno di cui abbiamo già parlato, offre anche un meraviglioso bestiario marmoreo in stile romanico popolato di animali fantastici tipici dell’immaginario medievale tra cui draghi, sirene e basilischi: una coincidenza imperdibile per gli amanti della natura e dell’arte.

Bibliografia:
Castelli A., “Carnevalata ascolana” in “Vita popolare marchigiana”, Ascoli Piceno, 28 marzo 1869
Crocioni G., “La gente marchigiana nelle sue tradizioni”, Edizioni Corticelli, Milano, 1951
De Angelis L., in “Lares: bullettino sociale” n° XI, Olschki Editore, Firenze, 1940
De Nino A., “Usi e costumi abruzzesi” vol. II, Tipografia di G. Barbèra, Firenze, 1881
Felci E., “Poesia popolare ascolana”, Lìbrati, Ascoli Piceno, 2011 (riedizione del 1946/47)
Piccioni G., “Alla ricerca delle tradizioni perdute …”, BIM Tronto, Grafiche Tacconi, Ascoli Piceno, 2014
Spadoni D., “Alcune costumanze e curiosità storiche marchigiane (Provincia di Macerata)”, Arnaldo Forni Editore, Bologna, 1966

Immagini:
Aramini A., “La Valnerina com’era. I paesi e la gente, un viaggio tra i frammenti della storia”, Il Formichiere, Foligno, 2013
Simonella A., “Buongiorno campo di fiori”, Fast Edit, Acquaviva Picena, 2009

Virginia Gidiucci

Virginia Gidiucci nasce nel 1989 a San Benedetto del Tronto dove vive tuttora. Diplomata in Scenografia all'Accademia di belle arti di Urbino, lavora ad Ascoli Piceno come costumista per la Compagnia dei Folli. Grazie alla sua passione per la montagna...
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