Il carnevale, dalla tradizione popolare al patrimonio storico marchigiano

Scritto il 17 Marzo 2022 da Virginia Gidiucci

in foto: Carnevale di Offida, foto d’epoca

Il Carnevale è sicuramente una delle festività più sentite del nostro Paese, legata ad antiche tradizioni da una lunghissima storia che ha stravolto la festa dai riti originari agli eventi sociali come oggi li conosciamo. Nella nostra regione possiamo vantare maschere e carnevali storici in ogni provincia, alcune delle quali andremo ad approfondire in questo articolo.

Per quanto riguarda il significato della parola “carnevale” (carnovale in toscano antico), l’etimologia più accreditata è quella medievale, che deriva dalla locuzione “carne‐levare”, ovvero, “togliere la carne”, riferito in origine al giorno precedente la Quaresima, in cui si cessava l’uso della carne (Treccani). Di diverso parere era, però, Du Cange il quale affermava che la parola “carnevale” traesse la sua etimologia da due parole “carn‐aval”, vale a dire “carne trangugio”. Qualche studioso avvalora questa seconda opinione col fatto che la parola altrimenti usata per intendere il Carnevale, ovvero “carnasciale”, potrebbe secondo alcuni essere composta dalla parola “carne” e dal verbo “scialare” (Balena; 1984).

Un’altra ipotesi è che il temine “carnevale” tragga le sue origini da “Carmen Arvale”, ovvero i “Carmina Arvalia”, antichi riti propiziatori di epoca romana presenziati dalla confraternita dei fratelli Arvali come personificazione degli antichi Lari. Le tradizioni nostrane legate alla liturgia contadina della terra, che venivano celebrate durante il mese del carnevale, ci appaiono nel simbolismo della gestualità molto simili agli antichi riti pagani (Santini; 2018).

Qualunque sia l’origine etimologica effettiva, nulla compromette l’immagine che il termine Carnevale ci dipinge nell’immaginario, come periodo di festa e di socializzazione rimpianto durante tutto il restodell’anno, di abbuffate e di stravizi, di mangiate e bevute ma anche di balli sfrenati e giornate che non vedono la loro fine, quando tutto ciò che di norma è vietato o obsoleto diventa lecito ed originale, un periodo insomma di abbondanza e sfrenatezza. “Carnevale bon compagno, pòzzi venì tre vòte all’anno”, esclamavano alcuni contadini del fermano (Mannocchi; 1921). Nel Camerinese si intonava “Ecco Carnuà che se la coje, oggi maccherò, domà le foje”, dove per “foje” si intendevano le verdure che si sarebbero mangiate dall’inizio della parentesi quaresimale (Eustacchi‐Nardi; 2014). Quasi identica la strofa recitata ad Agore di Acquasanta Terme: “Carnavale: de male vogghie, uoia li maccarù, d’mà li fogghie” (Polia; 2012). Si pensi che ad Ascoli Piceno il giorno del giovedì grasso, chiamato anticamente “berlingaccio”, era il giorno canonico delle sette colazioni: “L’essenziale era farne sette di “merenne”, piccole ma tutte e sette, nel pieno rispetto delle usanze e dei costumi aviti” (Luna; 1999). Nel Medioevo il grasso Carnevale era raffigurato con la testa di maiale ed ornato con una collana di insaccati vari, in contrapposizione con la magra Quaresima, che aveva in mano i simboli delle privazioni del periodo quaresimale, come verdure o pesce secco (Piccioni; 2014). Ovviamente la tradizione culinaria del Carnevale era ciò che più alimentava lo spirito di festa e generosità del popolo, che percepiva il periodo carnevalesco come un’ultima grande abbuffata di carne e dolciumi, proprio nel momento in cui le credenze ne erano più provviste, prima che la Quaresima ridimensionasse la dieta, ed il digiuno in molti casi, dei più e meno abbienti. In tempi meno recenti i festeggiamenti per il Carnevale iniziavano il giorno di Sant’Antonio Abate e terminavano alla mezzanotte del giorno che precede il mercoledì delle ceneri. La terzultima domenica prima del Carnevale era detta “la d’m’n’ca de li scruccù, la domenica degli scrocconi”, in riferimento alle visite scambievoli in cui si offrivano i manicaretti tipici; la penultima era detta “la domenica degli amici”, in cui ci si riuniva in feste da ballo anche per creare dei pretesti agli incontri amorosi, soprattutto tra i più giovani; l’ultima che anticipava il Carnevale era detta “d’ li pariend’: dei parenti” e si usava far visita a questi ultimi. Finalmente giunta la domenica “d’ Carnavà” iniziavano le grandi feste che si protraevano fino alla mezzanotte del Martedì Grasso. Ad Offida, la sequenza delle domeniche carnevalesche era la seguente: la terzultima domenica di Carnevale era celebrata la “domenica dei parenti”; la penultima, la “domenica degli amici”; l’ultima era la “domenica degli scrocconi” (Polia; 2012). I banchetti di Carnevale, abbondanti ed irrinunciabili, impegnavano in modo serio le risorse domestiche, sia per quanto riguardava i beni commestibili che per il poco denaro a disposizione, tanto che un proverbio sambenedettese recitava: “Carnevà: pe fa i maccarò fatte a ccase, se vènnette le porte” (Liberati; 1997). D’altronde, ad aggravare lo sperpero, la tradizione prescriveva di offrire cibo e dolci a chiunque giungesse in visita; in tal modo, ovviamente, i visitatori non mancavano. Questo costume, se da una parte alimentava il flusso di scrocconi e perditempo, dall’altra impegnava la famiglia a tener alto, nonostante tutto, il proprio onore evitando la figura dei taccagni: accusa che si sarebbe trasmessa per generazioni (Polia; 2012).

Alcune delle più evidenti consuetudini che accompagnano le festività carnevalesche le possiamo paragonare ad alcune più remote legate ai Saturnali, giornate di feste e riti propiziatori e purificatori, insieme ad altri prettamente agrari connessi al ciclo stagionale, al buon esito della semina ed alla fertilità della terra in generale. Le festività erano dedicate a Saturno, dio della seminagione, e mitico dio‐re della penisola italiana che aveva regnato durante l’”età dell’oro”. I Saturnali, per il loro carattere, ricordano assai da vicino il nostro Carnevale, mentre, per il periodo dell’anno in cui ricorrevano (dal 17 al 23 dicembre, durante il solstizio d’inverno), non sono compatibili con i giorni di festa odierni. Si credeva che durante questa “età dell’oro” gli uomini vivevano felici, nell’abbondanza di tutte le cose ed in perfetta eguaglianza fra loro; tali condizioni di quel tempo fortunato si volevano, in un certo modo, rievocare nei giorni dei Saturnali, durante i quali si festeggiava con conviti e banchetti l’abbondanza dei doni della terra e, concedendo agli schiavi la più larga licenza, si rappresentava l’antico stato di eguaglianza fra tutti gli uomini. Questa festa, a differenza del culto di Saturno, quasi ignoto fuori dal Lazio, si diffuse in tutto il mondo romano e rimase la festa più popolare e più cara alle genti di ogni condizione sociale fino al trionfo del cristianesimo. La parte ufficiale della festa era rappresentata da un sacrificio solenne nel tempio di Saturno, dentro cui si teneva il banchetto pubblico (convivium publicum). Al convito ufficiale seguivano poi i banchetti privati nelle singole case, dove si invitavano parenti ed amici e che talora degeneravano in orge ed abbuffate: a tavola si imbandiva quanto di meglio offrivano le cantine e dopo ci si abbandonava al gioco dei dadi, che le leggi proibivano al di fuori di quei giorni. Il senso di eguaglianza umana, per pochi giorni rinato o rievocato, si manifestava nella massima libertà concessa allora ai servi, per i quali i padroni stessi usavano imbandire un banchetto; gli schiavi potevano considerarsi temporaneamente degli uomini liberi, e potevano comportarsi di conseguenza. Si usava anche sorteggiare il nome di colui che doveva dirigere il buon andamento delle feste, “Princeps Saturnalicus”, il “re della festa”, una sorta di caricatura della classe nobile a cui veniva assegnato ogni potere. Le origini sulla divinità di Saturno risultano problematiche; era il dio dell’agricoltura, protettore della campagna e dei raccolti, quindi di importanza fondamentale per la religiosità del tempo, ma viene anche riconosciuto come dio degli inferi. Il “princeps” dei Saturnali personificava esattamente una divinità infernale, da identificare con Saturno o con Plutone, preposta alla custodia delle anime dei defunti, vestendo con una buffa maschera e un costume a colori sgargianti, tra i quali spiccava il rosso (il colore degli dèi). In epoca romana si credeva che tali divinità, uscite dalle profondità del suolo, vagassero in corteo per tutto il periodo invernale, quando cioè la terra riposava ed era incolta a causa delle condizioni atmosferiche. Dovevano quindi essere placate con offerte e feste in loro onore ed indotte a ritornare nell’aldilà, dove avrebbero favorito i raccolti della stagione estiva. Si trattava, insomma, di una sorta di lunga “parata carnevalesca”. Riti propiziatori dell’agricoltura evidentemente ispirati a queste tradizioni pagane, le ritroviamo in quelle costumanze tipiche della nostra zona chiamati “scacciafebbrà”, che si svolgono l’ultimo giorno del mese di febbraio ed hanno lo scopo di chiudere i ponti con l’anno vecchio e propiziarsi le forze della natura per dare inizio ad una nuova soddisfacente stagione di semina.

Alcuni studiosi hanno associato il Carnevale anche agli antichi Lupercalia, festività romane che si svolgevano i giorni nefasti di febbraio (dal 13 al 15), in onore del dio Fauno (Faunus Lupercus), protettore di greggi e bestiame. Il rituale, fortemente sentito dal popolo, si poneva a difesa degli animali da allevamento dai lupi che, nel periodo all’apice dell’inverno, non era infrequente che scendessero anche a basse quote alla ricerca di cibo. La cerimonia, celebrata da giovani sacerdoti chiamati Luperci, seminudi con le membra spalmate di grasso ed una maschera di fango a coprire il volto, si svolgeva nella grotta del Lupercale: il rito richiedeva, nella prima fase, il sacrificio di una o più capre e di un cane (che assolveva al ruolo del lupo); dopodiché si procedeva alla “segnatura” di due giovani novizi che l’anno successivo avrebbero cerimoniato anch’essi come sacerdoti Luperci. I giovani venivano segnati sulla fronte da un coltello immerso nel sangue della capra sacrificale che veniva poi asciugato con della lana bianca intinta nel latte dell’animale, al che i due solevano ridere. Venivano poi fatte loro indossare le pelli di capra, dalle quali venivano tagliate delle strisce da usare come fruste. Dopo un ricco banchetto, tutti i Luperci correvano intorno al colle saltando e colpendo con queste fruste sia il suolo, per favorirne la fertilità, sia le persone, in particolar modo le donne le quali, per garantirsi una maggiore fecondità, offrivano volontariamente il ventre. La cerimonia è stata interpretata come un atto di morte e rinascita rituale.

Carnevale nella campagna marchigiana, foto d’epoca

L’elemento che ricorre in tutti questi riti presunti all’origine del moderno Carnevale, è senza dubbio la presenza fissa ed obbligata della maschera, ancora oggi attributo fondamentale, che sia questa radicata nella tradizione o orientata verso tendenze più contemporanee. Sull’etimologia della parola “maschera” ci sono diverse ipotesi; la più accreditata sembrerebbe essere quella che lega il termine alla radice preindoeuropea “masca”, traducibile come “fuliggine” o, in maniera meno letterale, come “fantasma nero” (il FEW ricostruisce una base *mask, “scuro”). Un’altra ipotesi abbastanza diffusa, non del tutto incompatibile con la precedente, è quella che farebbe derivare il termine “maschera” direttamente dal latino medievale “masca(m)”, usato come sinonimo di “strega”, presente peraltro nel testo dell’editto di Rotari (“Lexlongobardorum I, 11: stringam, quodest mascam”; 643 d.C.) . Alcune tracce del vocabolo si trovano anche negli antichi idiomi germanici e nel provenzale, dove la parola “masc” era adoperata col significato di “stregone”. Nel dialetto dell’area ligure e piemontese ricorre la parola “masca” associata alla figura della strega. Secondo alcuni studiosi il tardo latino “masca(m)” dovrebbe essere un relitto del sostrato pregallico, alternante con *basca, cfr. fr. “rebacher”, dall’ant. fr. *rabaschier, “far fracasso”, detto degli spettri, da un verbo *bascare che corrisponde al greco báskein, termine che allude alla fascinazione magica (Accademia della Crusca). L’utilizzo della maschera è accertato in epoca preistorica nello svolgimento delle pratiche religiose come simbolo del passaggio tra la realtà visibile ed il mondo invisibile, mettendo così in comunicazione il mondo umano con quello degli spiriti. Colui che indossava la maschera perdeva la sua identità per immedesimarsi nel soggetto rituale che si desiderava rappresentare; l’effigie della maschera doveva somigliare, quanto più possibile, allo spirito umano o animale con cui si voleva entrare in contatto, celando la vera identità di chi la indossava. Il soggetto mascherato non voleva imitare la divinità, ma rappresentava la divinità stessa che prendeva possesso del contenitore umano. In seguito, nell’antico Egitto e nella Grecia classica si diffuse l’uso della maschera funeraria. Nel vivace contesto culturale ellenico, tuttavia, la maschera iniziò ad essere uno strumento figurativo, diffondendosi nei teatri della Grecia antica. Nei culti misterici di età ellenistica, la maschera costituì uno dei più importanti simboli della “morte iniziatica” e, di conseguenza, del passaggio ad un nuovo stadio di consapevolezza spirituale, mentre, come abbiamo visto, nella Roma imperiale cominciò a diffondersi l’uso della maschera nell’accezione satirica e burlesca.

Le maschere che per tradizione caratterizzavano il carnevale secoli addietro erano tutt’altro che allegre ed affabili, dovendo rappresentare gli spiriti che dal mondo degli inferi salivano quei giorni dell’anno a camminare tra la gente. I demoni si comportavano secondo la loro natura ed erano soliti danzare e cantare, ma anche frustare e beffeggiare chiunque essi incontrassero (Piccioni; 2014). Queste maschere, secondo l’antico rito, debbono far baccano, infastidire, turbare e creare un’atmosfera ambigua ed inquietante. Infatti, ancora oggi, nelle attuali feste in maschera, non è raro individuare figure come “il diavolo” o “la morte”, che resistono forse ignare del loro significato apotropaico, oppure altre pensate appositamente con lo scopo di coinvolgere ed infastidire il pubblico. Le maschere più ricorrenti nella tradizione marchigiana, da nord a sud, erano più o meno le stesse in ogni paese ed in ogni campagna: solitamente si trattava di figure come “lo sposo” e “la sposa”, “il diavolo” o “la morte”, “il dottore” e “il prete”, “il gobbo” o “lo zoppo” ed altri personaggi di stampo campagnolo caratterizzati diversamente da zona a zona, in base alle usanze di ciascun luogo. Nelle campagne tra Pesaro ed Urbino “adulti e bambini si mascheravano come potevano... Gli sposi, il dottore e il prete non mancavano mai... c’era un musicante con la fisarmonica e via per le strade della campagna. All’arrivo nelle case, dopo scenette, musica, canti e balli, nella valle del Metauro elemosinavano uova o lardo così:

Cicle cicle mascherina,

se en c’è l’òv, c’è la galina,

él pòrcell l’avet masèt,

su p’el mur l’avet tachèt.

Se c’ne dèt un cuncinin ce farimm i tajulin.

Se c’ne dèt un cuncinòn ce farimm i macaròn.

Se en ce dèt propri niènt ve chiapassa un accident!”

Queste usanze sono presenti in moltissime testimonianze da Pesaro e Urbino a Fano, da Macerata fino a tutto il Piceno.

La maschera ad oggi più famosa come simbolo del Carnevale in tutto il nostro Paese è senza dubbio Arlecchino, personaggio della Commedia dell’arte a metà tra lo Zanni bergamasco ed una figura demoniaca farsesca francese. Nel XII° secolo Orderico Vitale, nella sua “Storia Ecclesiastica”, parla di un corteo infernale di anime guidate dal demone Herlechin; piuttosto simile a questo è il demone Alichino, descritto da Dante nell’Inferno come membro dei Malebranche, un gruppo di diavoli che tortura i dannati con la pece bollente. La maschera di Arlecchino prende forma nel XVII° secolo e la caratterizzano un ghigno diabolico ed un piccolo corno o bernoccolo sul lato destro della fronte. Anche l’etimologia del nome evoca un’origine infernale: “Holle Konig” (Re dell’Inferno) in ambiente germanico, divenuto poi “Helleking” ed “Harlequin”. Hellequin è il nome di un personaggio, tipo comico del diavolo, nelle rappresentazioni medievali francesi, da cui la maschera odierna sembrerebbe trarre la sua origine. Dalla metà del XVI° secolo, con l’arrivo nella Commedia dell’arte della maschera di Arlecchino, si va gradualmente perdendo il carattere demoniaco, facendo prevalere qualità come comicità e astuzia, e vizi come l’ingordigia, diventando l’emblema del servo povero ma spensierato e mantenendo il carattere vivace ed irriverente che lo ha sempre contraddistinto. La leggenda popolare vuole che il costume di Arlecchino sia stato confezionato dalla madre stessa la quale, vedendo il proprio figlio soffrire del fatto che non potevano permettersi una maschera vera e propria data la gravità della loro condizione economica, mise insieme tutti i pezzi di stoffa donati ad Arlecchino dai bambini più fortunati in segno di affetto, così che anche lui potesse partecipare alla festa di Carnevale. La tradizione popolare era abituata a tali espedienti per garantirsi comunque la possibilità di uscire durante le feste mascherate, c’era l’abitudine a camuffare gli abiti abitudinali applicandoci sopra oggetti diversi di facile reperibilità casalinga, come fazzoletti colorati, pon‐ pons, campanelli tenuti da spille, oppure, se si possedeva una giacca si portava alla rovescia, con le tasche risvoltate, un po’ per dare un’impronta comica al personaggio attraverso la ridicolaggine dell’abbigliamento, ma un po’ forse anche per preservare il capo prezioso dagli eventi di quella giornata eccezionale. A volte, al costume si accompagnavo attrezzi e strumenti dell’agricoltura o del quotidiano ai quali ne venivano stravolti usi e forme: bastoni ed ombrelli, fruste, vasi da notte, pentole, falcioni e quant’altro. Strumenti con i quali si interagiva nello scherzo dispettoso con le altre persone, con cui si contribuiva al fracasso imposto dall’euforia collettiva, a volte retaggi di simboli rituali arcaici. In alcuni paesi dei monti Sibillini si ricorda la presenza di una maschera tradizionale un tempo nota come “lu Zaravàju”, rappresentato anno dopo anno dallo stesso uomo, che a Montefortino ricordano col soprannome di “Pèrsucu”. Ne scrive a proposito Lando Siliquini: “Lo ricordo vestito di ciaffi e cravatte variopinte, carico di campanelle e campanacci chiassosi. Veniva dal paese ed apprezzava l’ospitalità sincera, mentre ragazzini lo guardavano curiosi e un po’ stupìti. Personaggio allegorico e sfuggente”. Lo stesso Siliquini sostiene che l’etimologia del nome si riferisca a qualcosa di sciatto, confuso, ribelle, collegandosi al termine romeno “zàrvă” che tradotto vuol dire “baccano, fracasso, scompiglio”. Nel Lazio “zaravàju” è usato per indicare un oggetto indefinito. Anche questo, si può ben capire, è un costume nato dall’espediente casalingo; la persona che personificava lu Zaravàju era già di per sé un personaggio piuttosto caratteristico della comunità dalla simpatia ben nota. Siliquini, che lo ricorda nei carnevali fino alla metà degli anni ’60, si domanda: “quanto c’era in lui de lu Zaravàju, e quanto de lu Zaravàju era in lui?”. Quanto c’era di una maschera che girovagava i paesi dell’entroterra, tra monti e vallate, con uno spiedo in mano (a cercar lardelli?) nell’uomo libero ed indipendente? E quanto c’era della maschera abbigliata in modo strambo e singolare nell’uomo povero ed anticonformista? Fatto sta che quando Pèrsucu morì, lo Zaravàju se ne andò via con lui, migrando in posti che ancora non aveva visto. Quello dello Zaravàju è uno di quei casi in cui non si può sapere dove finisca l’uomo ed incominci la maschera, ciò che vive è il personaggio e ciò che rimane dopo la morte è il retaggio di esso. Come per Rameggia, personaggio popolare ascolano di fine XIX° secolo che rallegrava le domeniche al pubblico di Piazza del Popolo, fabbricante di chiodi e venditore ambulante di stoviglie; il soprannome veniva da “rimeggiare” per la sua attitudine a parlare sempre in rima, ma il suo vero nome era Serafino Angelini. “Un giorno, mentre Rameggia era in giro in pieno inverno a vendere le sue padelle, coperto da un vestito leggerissimo e tutto sbrendoli, se ne uscì con questo distico: “I’ me chiame Rameggiò, e nen me ne ‘mporta gniente de chigghie che va ‘n gire portenne lu gebbò”. Non aveva mai posseduto in vita sua lu gebbò (il cappotto), povero Rameggia!” (G. Fabiani, “Rameggia” su “Flash” n. 28, 1980, p. 41). Sia lu Zaravàju che Rameggia sono maschere e macchiette tradizionali, autentiche a tutti gli effetti in quanto incarnano, non personificano, la condizione eccezionale e lo spirito anarchico che il Carnevale delibera e promuove.

Carnevale a Cossignano 1934, foto d’epoca

La Commedia dell’arte ha dato impulso alla creazione o caratterizzazione di molte delle maschere che oggi consideriamo storiche. Le Marche possono vantarne un alto numero, riconosciute a livello nazionale, non come simboli della regione nella sua totalità, ma come emblemi di una provincia o di una singola città.

Il Carnevale di Pesaro ha come rappresentanti della tradizione due personaggi molto simili tra loro già nei nomi, Rabachén e Cagnèra, esattamente marito e moglie i cui appellativi possono tradursi dal vernacolo pesarese in “baccano, trambusto” (rabachén) e “lite” (cagnèra). Dell’origine del termine ne abbiamo parlato poco addietro riguardo alle possibili etimologie della parola “maschera”, dalla quale deriverebbe anche il lontano termine francese di rabachén, far fracasso. Entrambe le maschere nascono nel 1874; dopo i lunghi anni di guerre in cui non si pensava ai festeggiamenti, negli anni Cinquanta del XX° secolo tornarono protagonisti del Carnevale, salvo Cagnèra che, rimasta nell’oblio per diversi anni, rientrò come maschera tipica pesarese durante gli anni Ottanta, ad affiancare il consorte. Rabachén è descritto, più che come una semplice maschera, come un tipo caratteristico dello spettacolo popolare pesarese. E’ una figura stravagante, impetuosa, dal portamento aristocratico; un nobile dall’aspetto diplomatico. Come nel lontano 1800, Rabachén apre i carnevali su una carrozza trainata da cavalli; è circondato da maschere varie che rappresentano tutta la sua corte. Il suo costume è stato ridisegnato, con la connotazione che conosciamo oggi, nel 1958 ed è rimasto invariato negli anni tranne piccole e modeste modifiche apportate dai singoli personaggi che lo hanno interpretato. Paltò pesante a coda di rondine in panno rosso vivo (colore fondamentale a rappresentare il re della festa, come abbiamo visto dalla tradizione antica), pantaloni neri a righine bianche, camicia bianca con collo ad ampi becchi, fascia ai fianchi con i colori della città di Pesaro, il bianco ed il rosso, scarpe nere a punta larga. Al collo porta un foulard o a volte un papillon nero. Mascherina nera, barba e baffi con una grossa ed altissima tuba nera come copricapo. Sul petto fanno bella mostra l’ampio medagliere e decorazioni varie. La signora Cagnèra, al contrario del consorte, è una figura non molto alta di statura e possiamo immaginarla di fisico alquanto robusto. Indossa un’ampia gonna di panno rosso adornata di nastri ed ampio pizzo al bordo inferiore; camicetta bianca con ampio bavero, corpetto di velluto nero con accessori verdi, guanti bianchi ed una mascherina rossa con veletta che nasconde quasi interamente il volto. Scarpe nere ed un delizioso cappellino azzurro adorno di fiori completano il tutto. Con sé porta, solitamente, una borsetta ed un cestino di paglia con i fiori.

Unica ed iconica è invece la maschera che rappresenta lo storico Carnevale di Fano, ovvero “El Vulón”, detta comunemente “El Pup”. Questa maschera fu ideata nel 1951 dal pittore e dirigente della Società Carnevalesca Rino Fucci, il quale si ispirò probabilmente ad un personaggio già diffuso da secoli nella cultura popolare. Sulla nascita del personaggio non esistono certezze, una delle ipotesi più accreditate potrebbe essere quella che si riferisce al retaggio di un personaggio sgradito al popolo della penisola durante la dominazione francese del 1805‐1814, il banditore di editti napoleonico che, con fare borioso, declamava al centro delle pizze le leggi ed i decreti appena emanati dall’imperatore. Probabilmente, dalla ridondanza dell’indisponente “Nous VOULONS...” dei banditori francesi, il popolo cominciò a trarre beneficio almeno in termini di ironia ed affiatamento comune, cominciando a farsi beffe dell’esigente “Vulón” di turno. Più tardi il nome passò a designare ogni personaggio che ostentasse manie di grandezza “alla francese”, come gli snob di città. Ad oggi El Vulón è una maschera che rappresenta, sotto forma di caricatura, i personaggi più in vista del momento sia a livello locale che nazionale ed internazionale, spesso con un intento satirico ostentato, a volte come omaggi a grandi personalità care ai cittadini. Il carro annuale che rappresenta El Vulón si inserisce perfettamente nel contesto del Carnevale di Fano, che consiste in una parata di maestose allegorie variopinte create attraverso mesi e mesi di lavoro da sapienti artigiani. Le maestose figure che sfilano trasportate da carri sono il frutto di ingegnerie meccaniche e della lavorazione di materiali scultorei, per la struttura portante e per la rifinitura estetica, come legno, cartapesta e resine. Un momento tipico del Carnevale di Fano è il lancio dei dolciumi dai carri allegorici sulla folla a piedi (come avviene in molte città d’Italia con cibarie diverse); ogni carro ha una scorta di circa dieci quintali di dolci di ogni tipo. Per molti anni ci fu un accordo con l’azienda produttrice dei dolci Perugina, la quale fece in modo che venissero lanciati un gran numero di cioccolatini Baci, che divennero uno dei dolci ricorrenti del carnevale. I primi documenti che riguardano il Carnevale di Fano risalgono al 1347, dove si nomina un “palio Carnevale”, ma l’origine di questa festa potrebbe anche essere antecedente. L’evento ebbe un ampio slancio quando nel 1450 la famiglia Malatesta lo promosse fortemente. Gradualmente questa festa divenne sempre più importante e sempre più sfarzosa, tanto che nel 1718 Giacomo III Stuart venne a Fano dall’Inghilterra per assistere e godere del carnevale per dieci giorni, a testimonianza dell’importanza che aveva già acquisito. Il Carnevale di Fano assunse una forma simile a quella attuale, ovvero della parata, nel 1888, anno in cui fu organizzato il primo Corso mascherato. Ad oggi, il Carnevale storico di Fano, ha importanza a livello nazionale.

El Vulon del 2018, “La calunnia è un venticello”

Un’altra città che ha molto onorato il suo carnevale, orgogliosamente rinominato “El Carnevalò”, è Ancona, dove le maschere tipiche sono state fino al 1999 “Papagnocu” e “Burlandoto”, alle quali si è poi unita la maschera ad oggi più nota, ovvero “Mosciolino”. Le due maschere storiche nascono dalla fantasia di un burattinaio anconetano nella metà del XIX° secolo; i personaggi si esibivano inizialmente nei teatrini ambulanti ma, complice la simpatia che riscossero nel pubblico dorico, diventarono ben presto delle maschere carnevalesche. Nel 1861 furono proibite per decreto regio, probabilmente per la carica eccessivamente trasgressiva delle scenette comiche. Papagnoco era un contadino trasferitosi in città, rozzo, paccò (spaccone), vestito di grigio con un fazzoletto rosso al collo e cappello a larghe falde nero, era armato di un bastone con cui minacciava i cittadini, che con la sua mentalità agreste accusava di malcostume. Il nome richiama perfettamente quello della maschera principe del Carnevale di Verona, “Papà del Gnoco”, che però rappresenta una figura dissimile al Papagnoco anconetano. Burlandoto, che fungeva da spalla per Papagnoco, rappresentava una guardia della dogana papalina, sciocco e dalla divisa rappezzata e sudicia, burlato dai popolani e dai contrabbandieri. Burlandoto, infatti, prende il su nome da un appellativo con cui il popolo apostrofava con disprezzo gli ausiliari devoti al Papato durante il decennio di occupazione austriaca (1849‐1859). La nuova maschera carnevalesca anconetana, scelta nel 1999 con votazione popolare, è Mosciolino, ideata dal grafico dorico Andrea Goroni, dalle sembianze simili ad un folletto marino. Prende, ovviamente, il suo nome dal “mosciolo”, nome locale del mitilo di cui la città è ricca ed ha una sua personalissima storia che somiglia ad una fiaba. La maschera di Mosciolino, come è stata disegnata, è costituita da una casacchina sborsata a righe orizzontali con motivo ondulato, alternate bianche e blu, a ricordare le onde del mare, sotto indossa una maglietta e delle calze gialle, delle scarpette elfiche a punta rosso brillante ed un lungo berretto, con un pesciolino rosso che penzola dalla punta; in mano tiene una canna da pesca molto povera e rudimentale, ricavata da un ramoscello. Negli anni, suggestionati dalla storia di questo giovane ragazzo rimasto orfano a condividere la solitudine con gli animaletti marini, il costume si è caratterizzato con elementi tipici della pesca e della fauna locale, come stralci di rete, alghe e, ovviamente, mitili. 

Nel maceratese le antiche tradizioni legate al carnevale sono oggi ormai completamente perdute; rimangono gli eventi mondani. La maschera tipica del maceratese possiamo dire che sia stata quella di “Ciafrì”, diminutivo di Cianfrino, “maschera contadinesca locale” (Crocioni; 1951) nata a Mogliano di Macerata ed immortalata da D. Vittorio Tamburini; rappresenta un uomo “rozzo, assai furbo, interessato, impulsivo. Nei dialoghi l’interlocutore cittadino parla in pretto italiano, mentre Ciafrì nel dialetto del suo paese” (Ginobili; 1941). Crocioni ne parla come una “Fra le tante maschere che concorsero per secoli a dar vita e movimento a tripudi carnevaleschi, dileguate nel buio, senza lasciar di sé alcuna traccia” ma che al tempo aveva “goduto nelle Marche il pubblico favore e una certa popolarità (...) Rozzo ma furbo quanto mai, utilitario, sornione e veemente, di costumi e pregiudizi egli parla nel suo vernacolo con l’aria o lo spirito di un contadino, con tale vigoria di pensiero, da impressionare il lettore” (Crocioni; 1951). A Pioraco, ancora agli inizi dello scorso secolo, figuravano numerose maschere fisse: “zingari, pagliacci, arlecchini, la regina dei serpenti, i diavoli, il giudice inglese, la Giovane Italia. Erano, come si vede, maschere vecchie e maschere più recenti nate da un innato spirito di patriottismo come quella della Giovane Italia” (Eustacchi‐Nardi; 2014). Negli anni in cui l’autrice scrive (1947‐1948) ancora esisteva a Pioraco un’importante costumanza carnevalesca, quella “dellu coccocicciu” ovvero “dellu lardellu”. Il nome della pratica è chiaramente riferito agli omaggi alimentari che venivano offerti per l’occasione, “lardellu” e “cicciu”, solitamente di maiale che in quel periodo abbondava nelle dispense domestiche, mentre “cocchi” (sing. “coccu”) si riferisce alle uova. Bambini tutti tinti in viso di carbone, a guisa di spazzacamini, con uno spiedo in mano, vanno per le case a chiedere in elemosina lardo, salsicce, danaro, ecc. Erano i bambini poveri, cioè quelli che non avevano potuto ammazzare il maiale. “Sotto tale forma carnevalesca si nascondeva il carattere umiliante dell’accattonaggio” (Eustacchi‐Nardi; 2014). Allora soltanto i bambini giravano per lo più per le case, ma il Ginobili ci informa che qualche decennio addietro questo compito spettava alle donne, le quali “adornato di lauro il crine e il guarnello con uno spiedo alla sinistra ed il cembalo alla destra, si presentavano sull’aia del contadino e cantando canzoni a ballo, agitando in alto il clavicembalo”, cantavano. Negli anni in cui il Ginobili scriveva riguardo a “lu lardellu” maceratese, il costume era ormai “tenue e bizzarro (...) non si ripete più in alcuna parte anzi s’è quasi perduta completamente la memoria di questa usanza” (Ginobili; 1947). Crocioni specifica che la visita avveniva “di preferenza il giovedì grasso” quando “da sola, una donna ornata di lauro il crine e il guarnello, la quale con uno spiedo nella sinistra e il cembalo nella destra, sulle aie, subito circondata da fanciulli festanti, agitando il cembalo e cantando canzoni a ballo, eseguiva leggere movenze e piroette, fino a che la vergara, prontamente accorsa, non avesse infilato nello spiedo un lardello, dal quale la modesta usanza prendeva il nome” (Crocioni; 1951). Una singolarità a sé nel Camerinese era il paese di Bolognola, “il più conservatore, per la sua posizione remota tra i monti. C’è chi si maschera ad imitazione di Pulcinella, Pierrot, o che altro e così via in giro a lardello. C’è chi dà un pezzetto di lardo, chi invece, pane ed uova. Il tutto viene poi adoperato per una mangiata in comitiva. Al “ciccicocco” o “coccocicciu” di Camerino e dintorni, corrisponde “lu lardellu” di Macerata, il “ciucculaio” di Albacine, il “cicolaio” di Campodonico, e in forma più... cittadina, il “ciccolaio” di Fabriano” (Eustacchi‐Nardi; 2014). Ancora agli inizi del XX° secolo, soprattutto nel maceratese, alcune maschere comparivano in altre ricorrenze estranee al carnevale, come quella “dei dodici mesi dell’anno”: tra il Capodanno e la Pasquella un gruppo di tredici persone “recando ciascuna qualche oggetto agricolo o indossando vestito o parte di esso simboleggiante il suo mese (la tredicesima rappresenta l’anno padre di tutti), andava ripetendo le strofette dei mesi dell’anno”. “Gennaio vestiva da cuoco e recava con sé un coscio di agnello arrostito. Febbraio era munito di una vanga e vestiva da contadino. Marzo aveva in mano un cavolfiore ed un baccalà asciutto, esprimendo così la quaresima. Aprile invece non aveva che una gabbia con dentro degli uccelli come a simbolo della primavera. Maggio di bianco vestito, con grande cappello di paglia infiorato, ricordava il mese dei fiori. Giugno possedeva una falce ed un mazzo di spighe di grano verde. Luglio, un tridente rastrello. Agosto, una bottiglia di vino, alla quale ogni tanto sommessamente poneva le labbra. Settembre vestiva da donna, con un cesto di frutta (uva, mele ecc.). Ottobre aveva un sacchetto di grano alle spalle, che di tanto in tanto spargeva al suolo, indicando così la semina. Novembre, uno scaldaletto. Dicembre si accontentava di un piccolo tronco di albero, senza fronde” (De Angelis; 1941). Un’ altra maschera accertata nella zona di Morrovalle ma forse diffusa anche altrove era quella delle “spigarole”, anche questa riscontrata in una particolare festività lontana dal carnevale: “Un gruppo di giovinotti, vestiti da donne, fingeva di mietere, recando in mano grandi mazzi di spighe, e scimmiottando costumi amorosi dei giovani della mietitura. A un certo momento sopravvenivano altri giovani, lieti e festanti, mostrandosi smaniosi di aiutare, da perfetti cavalieri, le mietitrici finte donne, nel simbolico lavoro della “metenda”, come avrebbero fatto dinanzi alle biondeggianti spighe dei campi, mostrando il “truffo” del vino che avevano recato. Le finte donne, allora, facendo loro lieta accoglienza, cantavano, ripetendola più e più volte, questa strofetta:

E noi semo donne, spighemo il grano il nostro vergaro eccolo qua.

Il nostro vergaro

è tanto carino,

‘r truffo de vino

Ce passerà!” (Crocioni; 1951)

Mengone Torcicolli, marionetta d’epoca

Come notiamo, le maschere storiche delle nostre cittadine sono solitamente legate a mestieri e personaggi popolari, come nel Fermano, a Cerreto di Monte San Pietrangeli, luogo che ha dato i natali alla maschera di “Mengone Torcicolli” intorno al 1816. Mengone Torcicolli, “anche lui campagnolo” (Crocioni; 1951), nasce come marionetta e nel corso di circa cinquant’anni solca le scene del fermano con dieci commedie all’attivo. L’ideatore del personaggio e delle commedie in cui figura fu Andrea Longino Cardinali, mentre la lavorazione artigianale che occorreva alla produzione teatrale fu opera dell’amico e collaboratore Pacifico Quadrini, sapiente costruttore ed abile marionettista, che realizzò più di 200 manufatti oggi, purtroppo, andati perduti. Mengone, storpiatura di Domenicone, è un personaggio rustico ma bonario, “ci appare come semplice e astuto, sentenzioso ed accorto, suscettibile ma remissivo, ha talora una certa smorfia effimera e dimessamente burlevole” (Ferrari, Renzi; 2019). Svolgeva ruoli diversi in base alle commedie che interpretava: contadino, servo, castaldo, deputato della comunità, priore, pastore, carceriere e giardiniere. Decritto con una testa decisamente grande rispetto al corpo, genericamente “brutto, sbarbato, dalle folte ciglia setolose, con un nasone adunco, gli zigomi sporgenti, le orecchie ad ansa e certi tondi occhiacci di gatto, tra allucinati e grifagni” (Ferrari, Renzi; 2019). Il personaggio richiama in moltissimi aspetti quello della maschera umbra di Bertoccio, tanto da poter essere considerati “fratelli”. L’abbigliamento dei due è lo stesso, vestiti a modello dei contadini benestanti del XVIII secolo: “porta di preferenza il cappello a cucuzzolo, cerchielli d’oro agli orecchi, ha una camicia dalle grandi risvolte, il corpetto rosso fiammante con bottoni di metallo, la giubba di panno scuro, calzoni corti, le scarpe nere con grosse fibbie di acciaio. In dieci produzioni, il Cardinali ha saputo fare di Mengone un personaggio di spiccato rilievo comico, originale, divertente, con le vere caratteristiche della stirpe marchigiana, elevandolo dalla comune fittizia vita delle maschere, dal carattere indeterminato e generico. Lo ha trasportato così al valore di un tipo concreto e coerente, vivo, umano, improntato all’umorismo fecondo e felice. Talora la caricatura scenica è quasi inavvertita, tanto risulta schietto e vero il suo personaggio. Si direbbe che lo scrittore, studioso di non alterare il carattere etnico di Mengone, ami cercare gli effetti della comicità nelle situazioni bizzarre, nella spontaneità ruvida ed ingenua del linguaggio, in certe “scappate”, chiamiamole così, che non hanno l’eloquenza di un solo personaggio, ma di tutto un popolo” (Ferrari, Renzi; 2019). Crocioni lo descrive come “Non molto diverso da Cianfrino e da Bartoccio, popolare maschera umbra, Mengone, semplice e astuto, accorto e sentenzioso, con una smorfia di bonaccione che sferza e punge, quasi senza parere, che tempera le sue punture con una certa aria di confidenza e di burla, forse nell’intenzione dell’autore rappresenta, anche col suo vernacolo, il tipo medio del marchigiano” (Crocioni; 1951). Mengone è stato riportato alla luce solo di recente da Carlo Ferrari ed in seguito fatto rivivere da Marco Renzi per il carnevale fermano. Dopo molti anni di assenza dai teatri di marionette, nel 2019 una produzione del “Proscenio Teatro” ha ridato vita alla maschera di Mengone Torcicolli, attraverso un’accurata ricerca partita dai manufatti artistici originali ottocenteschi associata al lavoro di ricostruzione pratica e messa in scena della moderna compagnia di marionettisti del “Rospo Rosso”. Gli ultimi carnevali che la città di Fermo ha potuto quindi festeggiare, prima dell’emergenza Covid‐19 e di tutte le restrizioni imposte agli spettacoli ed agli eventi pubblici, ha visto il grande ritorno sulle scene del personaggio affermatosi come il più emblematico della tradizione carnevalesca fermana, accompagnato come in passato dalla fedele compagna di scene Lisetta, una fanciulla che, dopo aver vagato per il mondo “tra peripezie e disgrazie”, incontra Mengone che ne fa la sua sposa (Ginobili; 1941).

Foto di Giovanni Paccasassi

La provincia di Ascoli Piceno è ricchissima di antiche tradizioni carnevalesche, considerate di valore storico‐ culturale e riconosciute a livello nazionale. I Carnevali che hanno un valore storico documentato sono quelli di Offida, Castignano, Ascoli Piceno e delle frazioni acquasantane di Pozza e Umito. Dalle vecchie testimonianze sappiamo che un tempo era permesso solo agli uomini di mascherarsi in pubblico. A Forcella, come diffuso un po’ ovunque, le maschere più comuni erano: lo sposo, la sposa, il diavolo, il gobbo, sulla groppa del quale le persone si divertivano a piantare bastonate, mentre gruppi di ragazzi ed uomini mascherati giravano per i paesi approfittando dei ravioli e del vino cotto offerti dai paesani. A Pedana le maschere più frequenti erano: “ viecchie, spuse e sposa, predde, diavele, v’landre, gobbo, cioppe e cioppa” (Polia; 2012); ad Agore ci si mascherava anche da strega. “Lu v’landre” andava correndo di qua e di là ed alla sera era ubriaco fradicio, “lu viecchie”, invece, si gettava a terra e si rotolava mentre altri lo prendevano a bastonate; il diavolo, ovviamente, era munito di corna e “faceva il diavolo”, mentre “’u v’landre”, per il quale era considerata una sola maschera, munita di cappuccio ornato di nastri e stelle filanti, fungeva da “capo mascherata”. In vari luoghi, come ad esempio nel contado di Mozzano, sfilavano anche la maschera di Carnevale e quella della Quaresima: il primo portava in mano un piatto di ravioli, la seconda, impersonata da un figurante vestito d’abiti frusti e scuri, mostrava un ramo di foglie come ammonimento. Da lì a poco, infatti, la “fogghia” (termine con cui veniva identificato ogni tipo di vegetale commestibile) sarebbe stata il pasto quotidiano per quaranta lunghi giorni. Per quanto concerne il nome, “v’landre” o “velandre” si potrebbe tradurre in una cosa effimera, qualcosa che c’è e poi sparisce, come un fantasma. Ad Offida, “’u v’landre” vestiva, in genere, una lunga palandrana e si preferiva scegliere per questo ruolo una persona alta ed allampanata, tanto che il diminutivo “v’landrélla” è riferito alle persone dotate di queste caratteristiche fisiche (Polia; 2012).

Li Moccule a Castignano, 1973

A Castignano esiste una tradizione così radicata nel tempo che decreta la processione “de li moccule” del martedì grasso come “Carnevale storico del Piceno”. I moccoli (“li moccule” in dialetto) sono dei lampioni colorati costruiti su di una canna ancora verde che sorregge i rombi a più facce formati da fogli di carta velina, entro i quali si inserisce una candela che, una volta accesa, illuminerà di mille colori le vie del paese. Al suono della “catubba”, i primi moccoli si ritrovano per le vie del borgo medievale ed invitano tutti ad uscire di casa e ad accodarsi alla processione al richiamo di “Fora fora li moccule!”; un rito magico e misterioso che affonda le radici nella notte dei tempi. La processione avviene nel buio assoluto, in assenza di luce pubblica: l’affascinante e variopinto fiume di lumini diventa un torrente di voci, canti ed allegria, che proietta tutti in un mondo antico e fantastico (come ad esorcizzare i malanni dell’anno passato e propiziarsi fortuna per quello a venire) e culmina in piazza San Pietro, in un crescendo suggestivo, per la tradizionale battaglia da cui scaturisce il grande falò purificatore, rigeneratore di fertilità, nel quale verranno gettati tutti i moccoli. Come riferisce una fonte orale intervistata a Castignano, ricordando quanto raccontato dagli anziani anni addietro, già prima della seconda guerra mondiale si ricorda quest’usanza nei caratteri in cui la conosciamo oggi: “erano quasi mille i moccoli che si accendevano” (Piccioni; 2014). Una sfilata dei Moccoli, identica a quella castignanese, era già stata raccontata dallo scrittore tedesco J. W. Goethe nel suo “Viaggio in Italia”, quella della Roma papalina del 1786 che, con la “battaglia dei Moccoli”, nella quale ognuno doveva cercare di spegnere le candele degli altri, poneva fine ai festeggiamenti di carnevale e dava inizio alla Quaresima. Crocioni testimonia che, intorno alla metà del XX° secolo nelle campagne maceratesi, restava appena il ricordo dell’antica usanza dei moccoletti “come li chiamavano a Roma, donde provenivano”: “l’ultimo giorno di carnevale, sul far della notte, nelle piazze e strade maggiori, molti accendevano una candeletta, in gara con altri che si sforzavano di spegnerla, tutti gridando: “chi ha moccolo accenda moccolo”; mentre taluno esponeva alle finestre lanternini di carta, detti anche lampioncini, e la grande folla partecipava a suo modo alla ingenua gazzarra” (Crocioni; 1951).

Foto di Marco Cicconi

Con lo stesso fervor di popolo con cui a Castignano si accoglie la processione de “li moccule”, ad Offida si continuano alcune antichissime tradizioni che rendono unico questo ricco prezioso carnevale, attraendo anche molti turisti e persone da ogni parte della regione. Come già visto in precedenza, i festeggiamenti per il carnevale offidano hanno inizio nel pomeriggio del 17 gennaio, il giorno di Sant’Antonio Abate; il giorno della “domenica degli amici” la fanfara della “Congrega del Ciorpento” (del serpente, la più antica insieme alla complementare “Congrega della Ciuetta”, ossia della civetta e alla “Congrega dei Mus’ nir”, dei musi neri) esce rumorosa dal portone del cinquecentesco palazzo Mercolini per annunciare che si è entrati nel pieno del Carnevale, portandosi dietro le altre congreghe, precedute dai rispettivi stendardi, e sfilando per la città con lo scopo di aggregare ogni persona al festoso corteo. Le congreghe hanno un ruolo fondamentale nello svolgimento del carnevale offidano, che non soggiacendo a regole precostituite, è affidato totalmente alla loro inventiva; la mattina del giovedì grasso ricevono in consegna dal Sindaco le chiavi della città e, da quel momento, il governo della città è sospeso e simbolicamente affidato nelle loro mani. Oltre alle antiche tradizioni mondane che instaurano un legame tra teatro e Carnevale ed hanno generato i veglioni, o Veglionissimi, le feste da ballo con concorsi e premiazioni per le maschere più belle, che ad Offida si tengono nel meraviglioso teatro Ottocentesco del Serpente Aureo, la città è famosa a livello nazionale per la tradizionale corrida che si svolge il venerdì successivo al giovedì grasso, localmente detta la corsa de “lu bov’ fint”. In tempi meno recenti, a “li terrazzà” (nome con cui ci tengono ad essere chiamati gli abitanti del paese per distinguersi da chi vive fuori le mura e da quelli del contado) qualche possidente locale forniva un bove da sacrificare in prossimità del portico adiacente al palazzo comunale; la carne veniva poi distribuita alle famiglie più bisognose che, in questo modo, partecipavano alla festa. La gente del luogo diceva che gli anelli di ferro infissi nel muro venivano utilizzati per legare il bove a Carnevale. L’usanza fu dismessa nella seconda metà del XIX° secolo, avvenuta l’unità d’Italia (Polia; 2012). Il tradizionale susseguirsi delle “poste”, ovvero delle offerte di alcune famiglie benestanti, nacque probabilmente come una sorta di risarcimento per la popolazione scontenta di essere stata privata di un costume assai più antico, ovvero quello della “caccia al bue”.

Carnevale di Offida, foto d’epoca

Vi è notizia di “cacce al bue”, o “venationes”, in particolare durante il carnevale a Roma sotto il pontificato di Papa Leone X nel primo decennio del 1500, mentre una caccia come quella offidana si compiva a Testaccio (luogo dove sorge tuttora il macello) durante il carnevale fino al XIX° secolo, sebbene oggi non vi sia più alcuna traccia nella memoria popolare. Di questa antica e cruenta tradizione, diffusa da Roma a tutto lo Stato della Chiesa fino a Venezia, si incontrano le prime testimonianze scritte nell’offidano sul finire del 1700. Un documento relativo al macello pubblico di Offida ci informa che l’appaltatore, o macellaio, aveva il compito di organizzare la caccia, o “steccato” come riportato letteralmente. Lo steccato si riferisce chiaramente alla recinzione di legno che veniva fatta nella piazza del popolo per dividere il luogo dell’azione dagli spettatori, formando per questi apposite gradinate tanto da costruire una sorta di anfiteatro; nella documentazione si cita l’obbligo per il macellaio “di fare lo steccato dentro al Carnevale a requisizione del Magistrato” (1786) (Vannicola; 2018). Alla caccia vera e propria partecipavano pochissime persone, forse solo i macellai che provvedevano al bue e al cane, i quali erano gli unici protagonisti della sanguinosa lotta; il popolo, come pubblico spettatore, osservava lo spettacolo dallo steccato. In altri comuni esisteva una variante chiamata “giostra” dove l’uomo partecipava con prodezze ed acrobazie sull’animale che, non sempre, veniva destinato poi al macello ma reimpiegato come “campione” nei vari steccati della zona. Ad Offida si invitavano quelli dei paesi vicini quali Fermo, Ascoli, Montalto, Ripatransone, Grottammare, San Benedetto, Santa Vittoria, Porto di Fermo, Monterubbiano e Cossignano: tutte comunità dove, nel periodo tra settembre e febbraio, si svolgevano simili divertimenti (Vannicola; 2018). La caccia al bue continuò certamente fino al 1834 e fu soppressa, ancora in epoca pre‐unitaria, al tempo della Repubblica Romana. L’ultima caccia avvenne il 14 novembre 1849; da allora l’autorità ordinò che le bestie si mattassero solo in spazi chiusi dedicati.

Foto di Marco Cicconi

Così nel XX° secolo gli offidani ripresero la tradizione sostituendo al bue vero quello finto. Allora come oggi il bove ci appare come un simulacro, appunto, di quello originale, costruito dagli artigiani locali con un’intelaiatura di legno e ferro ricoperta da uno strato sagomato in cartapesta, con il muso perfettamente dipinto, su cui si incolla della stoffa bianca con strisce rosse a ricoprire la persona che lo indosserà durante la corsa sfrenata per le vie cittadine. Molti provano il desiderio di toccare le corna del bove finto e quindi tentare di portare a casa una delle nappe rosse che vi sono appese, come amuleti porta fortuna. Per tradizione, il portatore del bove finto dovrebbe essere completamente sobrio al momento della sua funzione, impegnandosi nel fingere di incornare i passanti senza arrecar loro danno, al contrario dei suoi due aiutanti, che lungo il percorso tracannano bicchieri e bicchieri di vino offerti dal pubblico: i due aiutanti del portatore, perlomeno fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, prima di assumere tale funzione erano costretti a superare una sorta di “prova del vino”, che voleva dire essere sottoposti ad otto giorni di cospicue bevute dai quali dovevano uscire indenni. Solo così potevano dimostrare di poter guidare il portatore il quale, all’interno del simulacro, aveva una visuale molto ridotta. Il costume tipico per ogni offidano che partecipi alla “corsa” del bove finto (ma anche del pubblico forestiero che desideri uniformarsi al codice della festa come segno di rispetto al bove ed alla cittadinanza) è il tradizionale “guazzarò”, un indumento legato ai lavori agricoli che affonda le sue radici nella storia. Si tratta di una tunica bianca, guarnita con bande rosse, ed è una rivisitazione del saio medievale usato dai contadini durante i lavori di vendemmia e mietitura, ma anche da artigiani e commercianti per preservare il vestiario quotidiano durante il lavoro. La sua origine più remota risale comunque alla moda dell’antenato popolo piceno, in cui il capo base era costituito da una tunica semplice bianca e lunga fin sotto al ginocchio, un modello quasi del tutto simile a quelle del moderno “guazzarò” offidano che di solito copre le brache bianche e le calze rosse; sicuramente la tunica picena è all’origine del “guazzarone” indossato dagli uomini di Monterubbiano durante la cerimonia storica di “Sciò la Pica” che ricorda moltissimo quello carnevalesco offidano. L’etimologia della parola potrebbe far riferimento al verbo “guazzare”, per indicare che questa era una veste larga e comoda, in cui ci si poteva in qualche modo “sguazzare”, cioè muovere liberamente (Piccioni; 2014). Altro segno caratteristico della mascherata offidana è la presenza de “lu sign nir”, le macchie di nero sul viso che le persone si procurano bruciando i tappi di sughero e graffiandoli sulla pelle: qualcuno sceglie

di macchiare solo alcune parti del viso, altri anche tutta la faccia, rimedio popolare all’assenza della maschera vera e propria. Bisogna infatti considerare che le mascherate di carnevale non fossero alla portata di tutti, ma per attenersi alla tradizione, che voleva la presenza di volti oscuri e della non riconoscibilità della persona mascherata, si ricorreva a mezzi più economici ma allo stesso modo evocativi. Emblema di questa tradizione è l’antica Congrega de li Mus’ nir, che ne hanno fatto un elemento caratterizzante del proprio travestimento che evoca retaggi più antichi di quanto possiamo spingerci ora a dire.

Il bove finto parte alle ore sedici dalla casa di Giancarlo Laudadio, noto col soprannome di “lu Falch”, attualmente via Martiri della Resistenza, e, attraverso il corso principale, alle diciotto e trenta entra nella Piazza del Popolo, la piazza principale di Offida, dove viene “ucciso” facendogli toccare con le corna una colonna in pietra di fronte al Municipio. La cerimonia ricorda il cruento sacrificio alle origini dell’usanza (Polia; 2012). La più antica descrizione della caccia al bove finto (“lu bov fint”) l’ha rintracciata Mario Vannicola nel diario di Michele Angelini, relativa al venerdì di carnevale 4 febbraio 1887: “Prendono una scala di 5 o 6 piuoli, mettonvi degli archetti e ricopron tutto d’una coperta bianca; è il corpo del bue: all’un de’ capi mettono una testa di bue dipinta ed un paio di corna; all’altro capo una coda; un uomo si mette sulle spalle la scala e il bue è fatto. Otto o dieci poi, vestiti di rosso, con in mano canne a cui han fissati fazzoletti pure rossi gli fan la caccia urlando e fischiando, i bimbi corrono dietro e il bue va correndo somministrando cornate da ogni banda” (Vannicola; 2018). L’ultimo atto della festa è la processione che riparte dalla piazza portando via a spalla la “carcassa” del bove morto ed intonando una vecchia canzone scritta da Carlo Bosi per coloro che combatterono le Guerre d’Indipendenza, oggi inno ufficiale del Carnevale di Offida, “ Addio, Ninetta, addio, che l’armata se ne va...”, dove “Ninetta” sostituisce l’originale “mia bella” e suona come un addio assai meno marziale essendo diretto alle mogli dei portatori le quali, in tal modo, sono avvisate di fare pure a meno di attendere il ritorno alla sera dei propri mariti durante i giorni di bagordi e sbornie carnascialesche (Polia; 2012). E’ stato adottato come inno del carnevale perché molti giovani offidani, al ritorno dalle grandi guerre, ripeterono i canti patriottici intonati sui campi di battaglia e, fra tutte, probabilmente questa è quella che meglio si adattava per orecchiabilità a diventare un inno popolare. Questa canzone viene suonata in tutte le manifestazioni del carnevale offidano, andando anche a chiudere la celebrazione dei “v’lurd" la sera del martedì grasso.

Giovedì grasso a Offida sulla “cacciatora”, foto d’epoca

Oggi il giorno del giovedì grasso è interamente dedicato ai bambini ed alle classi scolastiche, con una ricostruzione in piccolo del tradizionale “bove finto”; una giornata improntata alla conoscenza delle antiche usanze e simbologie ed alla continuità del patrimonio storico culturale ereditato. Un tempo invece, il giovedì grasso era il giorno in cui i membri del comitato carnevalesco (quando ancora non si erano venute a formare le Congreghe) si recavano nelle prime ore del pomeriggio su di una carrozza (detta “cacciatora”) trainata da un cavallo a portare ramoscelli sfrondati di sambuco alle coppie sterili del paese; scherzo, questo, che poteva sembrare di cattivo gusto, ma che veniva accettato con lo spirito adatto alla particolare occasione. Non sappiamo con certezza quale tipo di significato apotropaico potesse avere il sambuco tra le genti offidane per essere considerato un potenziale portatore di fertilità; certamente in alcune zone rurali della Valnerina, negli stessi decenni, era considerato un rimedio che preservava le donne gravide dall’aborto: si ricercava un sambuco che cresceva nelle cavità di certi alberi della specie del salice e che era detto “legno stregone”; le donne incinte usavano portarne un pezzetto addosso fino al giorno del parto (Polia; 2010).

Foto di Mario Dondero

La sfilata de “li v’lurd” ha inizio al calar del sole del martedì grasso, mentre tutti i balli ed i festeggiamenti di piazza sono già in atto e si sta per raggiungere il culmine del Carnevale prima delle drastiche privazioni quaresimali: centinaia di persone vestite con il tipico “guazzarò”, con lunghi fasci di canne e sterpi accesi (i v’lurd), sfilano percorrendo le principali strade cittadine, inondandole di fumo e fiamme, per ritornare poi alla Piazza del Popolo “circondandola di un mare ondeggiante di fuoco sul quale si levano alte le urla delle maschere e il rumore ossessivo di improvvisati tamburi” (Balena; 1984). Qui tutti i “v’lurd” si uniscono insieme in un grande falò collettivo, che segna, come per i “moccule” di Castignano, la morte del Carnevale ed allude agli arcaici riti di purificazione della città, nonché di invocazione per la fertilità di campi, greggi ed attività umane, come avveniva nel mondo italico e latino nel mese di febbraio, cerimonia trasformata poi dal cristianesimo nella Candelora. Sono molte le persone con il “guazzarò” che attraversano correndo il grande fuoco dei v’lurd, saltellando sui carboni ardenti, tipico gesto rituale di epoca romana. Secondo quanto scritto e tramandato da Guglielmo Allevi, storico offidano, nel XIX° secolo il pomeriggio del martedì grasso veniva portata nella piazza della cittadina una “figura bacchica”, accompagnata da giovani vestiti di pelli di capra (che ricordano da vicino le figure sacerdotali dei Lupercalia) . “Il corteo era preceduto da una specie di megera che distribuiva rami di sambuco, ritenuta dal popolo una pianta sterile. Il dono del sambuco è stato sempre considerato come uno scherzo, uno sfottò verso gli uomini”; secondo Balena, infatti, “in quell’occasione, come negli antichi Lupercali, il gesto rituale intendeva promuovere ed auspicare la fecondità, non tanto degli uomini quanto delle donne” (Balena; 1984). Molteplici sono le interpretazioni che si è tentato di dare al termine “v’lurd”, contrazione di “vélurde”; è sicuramente una locuzione dialettale che potrebbe derivare , secondo alcuni, dal vocabolo “bigurdo” o “bigordo” o ancora “begordo”, con cui nel medioevo si usava indicare una giostra cavalleresca che si svolgeva in occasione delle feste più importanti (il nome dato alla giostra era “behort’” in francese o “behurt’” in tedesco) e che si chiudeva, a sera, con l’accensione di fasci di canne che, in senso traslato, vennero chiamati con lo stesso nome della manifestazione ludica. Meno plausibili le versioni che vedrebbero i “vélurde” derivare dal dialetto ascolano “vélure” con cui si indicavano gli aloni delle fiamme del focolare (Balena; 1984) oppure dal latino “vellus‐ velluris” (vello, pelle di animale) in riferimento all’abbigliamento del carnevale offidano Ottocentesco come descritto da Allevi (Piccioni; 2014).

Foto di Mario Dondero

Una descrizione perfettamente esposta ed accuratamente dettagliata dello storico offidano, ci immerge nel clima del martedì grasso Ottocentesco, coinvolgendo ogni senso nel moto del racconto che trascrivo integralmente: “E’ il pomeriggio dell’ultimo dì di carnevale: da ogni crocicchio, da ogni strada, da ogni chiassuolo, sbucano a tre, a quattro, a piccole brigatelle uomini bizzarramente camuffati; si uniscono agli altri, si affollano, ingrossano, inondano la città, borghesi, popolani, giovani, vecchi, fanciulli, ed è raro il caso che non vi si noti qualche donna più o meno gentile, rimasta a farci fede, come in antico anche il bel sesso prendesse parte alla festa del fuoco. Hanno indosso camiciotti bianchi, lunghi a mezza gamba, che il nostro popolo del contado usa nell’inverno col nome di guazzone; la testa caccian dentro ad ogni specie di copricapo, il viso infardano di farina e di ogni maniera di colori. Tutti poi, borghesi e popolo, piccini e grandi, recan tralci e corone di edera ed, ad armacollo, il tradizionale fiasco di vin cotto, qualche cosa di atroce, che ti cauterizza la gola e ti manda a spasso il cervello. E così, questi strani figuri, dato il piglio a cassette di petrolio, a testi, a secchie di legno, e, martellandovi su alla disperata, scorrazzano per le vie della città; e come il vino nella testa lavora, s’urtano, s’abbracciano, barcollano, cascano, si regalano ceffoni e baci da lasciar gli uni e gli altri il livido sulle guancie. Lungo le strade, in tanto, per le piazze, nei viottoli, ovunque, son là, che aspettano, i severi ministri dell’orgia del fuoco, ritti, taciturni, addossati alle case, alti così da sorpassare i primi piani col capo: i ministri del fuoco, pronti a gittare il loro alito di fumo e di fiamme sulla città sgomenta. ..vo dire, fasci di canne, riempiti di paglia, anima vigliacca di corpo che si sfascia, conosciuti dal nostro popolo sotto il ben poco promettente nome di “BAGORDI”. Oh, che è? Che non è? Da un’oscura strada della città si avanza lentamente un carro tirato a braccia di uomini e la folla si precipita verso esso schiamazzando. Su quel carro, sotto un verde padiglione di ellera, sta seduto un fantoccio vestito come dio vuole: la testa di legno ha calva, prominente, enorme il naso, il viso dipinto di carminio. Gli han posto intorno al collo a parecchi giri un monile di gusci d’uova, e il monile ricade abbondantemente sul petto. Introno al carro, di qua, di là, di su, di giù, è una ressa, un diavolio di maschere, tra le quali uomini che, coperti il tergo con una pelle nera di scaprone e tiratone il muso sul capo a maniera di cappuccio, dando fiato a buccine ed a corni e grottescamente saltellano. La folla degli incamiciati, quasi presa da sacro furore, urlando, si caccia giù in corsa per la via del Serpente Aureo: e in quella lunga e stretta gola, fiancheggiata da alte case, non vedi che una confusione indescrivibile di figure umane, e sopra esse, fra turbini di fumo, un aleggiare di mille fiamme che si allontanano ondeggiando; e sbattimenti di luci e giuochi di ombre corron su per le mura circostanti, poi, su nell’alto, una striscia di cielo nero punteggiato qua e là da qualche stella pallida. E gli incamiciati tornano, cioncano, ripiglian fiato, si ricacciano per le vie, s’abbattono, s’incrociano con altri, e tutto è fuoco, fumo, urli, un vero pandemonio. Ma il severo genio, che presiede alla festa, adesso ravvolto esso pure in un mantello di porpora, manda di lassù nello spazio la sua poderosa voce di bronzo; i bagordi eri si sparpagliano, i fuochi si spengono, cessa l’urlio, e le tenebre tornano a regnare sovrane sulla città che tace e si addormenta” (Allevi; 1926).

Foto di Luca Marcantonelli e Lucia Paciaroni

Nel sabato della settimana di carnevale, si dovrebbe assistere, almeno una volta nella vita, ad una particolare sfilata in maschera degli abitanti delle frazioni acquasantane di Pozza e Umito; una tradizione antichissima che ha resistito quasi intatta e sconosciuta fino ad oggi, forse anche grazie al posizionamento isolato nell’alta valle del Garrafo, che non ha alterato la simbologia apotropaica dei gesti rituali e delle maschere che vi resistono. Le uniche informazioni che sono arrivate a noi riguardanti gli usi di questo carnevale le dobbiamo alle testimonianze orali degli anziani che, con amore e passione per questo territorio, Ascenzio Santini ha provveduto ad inserire in un libro‐chiave per la lettura della celebrazione carnevalesca. Come attestato dagli anziani, il carnevale a Pozza e Umito si è sempre celebrato, ad eccezione di alcuni periodi particolarmente proibitivi: è saltato, ad esempio, negli anni delle grandi guerre ed in quelli in cui nella vallata imperversavano malattie contagiose come la Spagnola ed il tifo e negli anni in cui tutti i festeggiamenti erano vietati dal papato; più recentemente è saltato nel 2017 a causa degli eventi sismici e delle grandi nevicate, e nel 2021 a causa della pandemia da Covid‐19.

La maschera che apre il corteo è quella del Diavolo, seguito dal custode del Diavolo e tutore dell’ordine, oggi rappresentato nelle vesti di un Carabiniere, che tiene a bada il dèmone con una corda; in passato, al posto di questa, veniva usata una catena in ferro che, sbattendo a terra, aiutava il diavolo ad incutere timore e fare baccano. Il suonatore di organetto, elemento fondamentale per animare il corteo ed i momenti di convivio che si intervallano lungo il percorso con il tradizionale saltarello locale, precede la coppia di sposi ed il folto e vivacissimo gruppo degli “zann del Garrafo”, vero emblema di questo Carnevale conosciuto, appunto, come “Carnevale degli Zanni” di Pozza e Umito. In passato, a volte, vi era anche la maschera della Morte che un anno fu personificata da qualche locale che si presentò alla sfilata con un affilatissimo falcione, creando momenti di terrore tra la folla. Fino a qualche decennio fa la sposa era un uomo travestito da donna, poiché alle donne era vietato mascherarsi.

Gli Zann del Garrafo al Carnevale di Ascoli Piceno, 1972

Rispetto alle altre maschere dalla simbologia più evidente, quella dello zann risulta particolare ed anomala nel contesto, tanto da essere oggetto di studi antropologici a livello nazionale; la figura dello zann colpisce soprattutto per l’elemento caratterizzante della maschera, ovvero un alto cappello conico a frange variopinte chiamato “coccarda”. Sono tante le maschere sparse per l’Europa che hanno alti cappelli conici: quelle che somigliano di più allo zann acquasantano le troviamo nell’arco alpino, in provincia di Rieti, dove la maschera viene chiamata “zanne” ed il capo maschera “Zannone”, ed in provincia di Chieti nel comune di Castiglion Messer Marino, dove viene chiamata “Pulcenella”, che risulta essere, al confronto, la più simile allo zann. Santini sostiene che un collegamento alla base di queste similitudini etnologiche, senza però evidenti riscontri significativi, possa essere il fatto che tutti questi posti elencati si trovavano inscritti in delle comunanze agrarie. Nella comunanza agraria di Montacuto (della quale facevano parte Pozza e Umito, insieme a Pomaro, Pito e Vallecchia, frazioni di Acquasanta Terme che oggi rientrano in quello splendido contesto ambientale che è la Laga settentrionale) potevano mascherarsi da zann soltanto quei giovani che, secondo la comunità degli aventi diritto, erano maturi ed avevano le caratteristiche per mettere su famiglia e che venivano “coscritti” al raggiungimento dell’età adulta, fissata di norma a 18 anni.

Il ragazzo che rispondeva ai requisiti richiesti e diventava un coscritto poteva iniziare a procurarsi quanto necessario per mascherarsi da zann: le donne di famiglia realizzavano coi ferri i calzettoni, i guanti ed il maglione in lana bianca, preferibilmente, a seconda delle disponibilità; anche i pantaloni dovevano essere di velluto bianco e lunghi poco sotto al ginocchio (spesso, per problemi economici, questi erano sostituiti dai lunghi mutandoni di lana, possibilmente senza tante toppe o rammendi). Sulla cintola, sui polsini della maglia e sotto alle ginocchia venivano legati a coppie dei campanelli, oggi sostituiti con i meno rumorosi e più colorati pon‐pons; le scarpe erano le migliori che si potevano trovare in casa, ricorrendo anche al prestito parentale, a sottolineare quanto anche nell’abbigliamento si riflettesse il profondo rispetto che la popolazione nutriva nei confronti di un rituale tanto arcaico da essere divenuto quasi dogmatico. Il neo zann doveva poi procurarsi la “staiola”, quella particolare spada in legno dipinto tenuta in mano dai figuranti le quali, con il passare del tempo, sono diventate vere e proprie opere d’arte realizzate da maestri ebanisti e pittori.

La staiola è così chiamata perché era un sottomultiplo dello stadio Romano (unità di misura degli antichi romani); anche le tacche sulla sua lunghezza sarebbero sottomultipli della stessa unità di misura (Santini; 2018). La staiola serviva, oltre che per percuotere la terra durante i riti propiziatori, per ristabilire i confini tra le proprietà private. I dipinti sulle due facce della spada rappresentavano da un lato il Bene e dall’altro il Male.

Staiola

La parte della maschera che richiedeva maggior tempo di lavoro era sicuramente la coccarda, costruita partendo da un’intelaiatura in vimini che doveva sorreggere il peso del copricapo facendo sì che non ricadesse avanti o dietro sulla testa del figurante. “Nei paesi vi era sempre qualche anziano che insegnava ai giovani coscritti a farsi la coccarda” (Santini; 2018). Sul telaio veniva cucito un panno bianco a coprire tutte le superfici laterali del cono; insieme a questo, sul davanti si applicava un velo nero non troppo lungo che serviva a coprire il volto, mentre sul retro andava un asciugamano con funzione di mantella copri spalle, il tutto con lo scopo ultimo di rendere la persona il meno riconoscibile possibile. “In passato si racconta che lu zann sopra al bianco maglione di lana avesse una mantellina che è stata sostituita da uno o due scialli dai colori sgargianti, e questi scialli possono variare da uno a quattro; sembrava strano quando il capo zann (...) diceva che lo scialle doveva essere frangiato, ciò sembrava un eccesso di zelo e qualche volta (...) ho risposto: “Ma dove sta scritto?”. La loro risposta era sempre la stessa: “Sta scritto! Sta scritto!”. Finché è arrivato il giorno che ho scoperto dove sta scritto...” (Santini; 2018). Sul panno andavano poi attaccate le frange: ci volevano circa 35 fogli di carta velina di diversi colori, a volte ne facevano bastare solo cinque o dieci e sotto mettevano dei ritagli di giornale che, in condizioni normali erano nascosti ma al primo movimento brusco o alla prima folata di vento, mostravano a tutti che il figurante non poteva permettersi abbastanza fogli di carta colorata. Gli anziani raccontano che nei secoli precedenti anche la vicinissima frazione di Pito partecipava a questo carnevale e che gli zann dei tre paesi, per distinguersi, tagliavano in modo diverso le frange delle loro coccarde. Sulla punta il coscritto affiggeva un ritratto o una fotografia raffigurante il suo ideale di donna, ovvero la figura di ragazza che somigliasse più a quella che avrebbe voluto prendere in sposa. Quando gli zann sfilavano in corteo, la ragazza alla quale piaceva un particolare zann si dichiarava legandogli due frange colorate alla coccarda, e questo poteva succedere anche con più ragazze, perciò quanto più ricco era il copricapo al termine del carnevale, quanto più lo zann poteva ritenersi un soddisfacente conquistatore. Se nel corso dell’anno il coscritto non sceglieva nessuna ragazza e non si sposava, l’anno successivo prima di mascherarsi doveva ridurre la lunghezza e la larghezza dei fogli che le aspiranti mogli gli avevano appeso sulla coccarda l’anno precedente e farne un ciuffo più corto che veniva legato sulla punta del cappello subito sotto al disegno o pittura che raffigurava il suo modello ideale femminile; questo serviva a far capire che era di gusti difficili ma che sapeva comunque aspettare (Santini; 2018). Le origini della maschera risultano problematiche da rintracciare. Il termine “zann”, abbreviativo dell’italiano Zanni, nome proprio maschile abbreviativo di Giovanni, potrebbe essere stato facilmente importato nella zona dai mastri scalpellini lombardi che risultano, dai molteplici documenti rintracciati all’archivio cittadino dallo studioso don Virginio Cognoli, costruttori edili di gran parte dei centri abitati limitrofi ad Acquasanta Terme. I costruttori venuti dall’arco alpino, potrebbero dunque aver importato questo costume tipico e legato alla liturgia della terra delle loro zone. Il corteo parte, generalmente, dal centro abitato di Umito e, passando per contrada Fadoni, raggiunge Pozza con una sosta significativa al cimitero partigiano, per lo spettatore odierno il momento più emozionante e trascinante forse dell’evento. Come ogni carnevale che ha mantenuto il simbolismo originario, anche quello di Pozza e Umito presenta due fasi fondamentali incentrate sulla rappresentazione dei riti propiziatori per quanto riguarda sia la fertilità agraria che quella umana; la prima fase è la presa di possesso dei paesi da parte del diavolo, guida del corteo, maschera brutta e chiassosa, coperta con vello ovino, corna e campanaccio; il suono di quest’ultimo ha l’effetto di svegliare la natura, che dovrà produrre al massimo con l’arrivo della calda stagione e rendere in termini di pascoli e raccolti. Nelle mascherate dello scorso secolo, usanza che ormai è andata perduta, “il diavolo copriva i pantaloni con le guardiamacchie, erano così chiamate due pelli di capra conciate alle quali erano stati cuciti dei pezzi di cuoio come legacci, e queste venivano indossate sopra ai pantaloni dai pastori quando portavano al pascolo gli animali; la loro funzione era quella di riparare le gambe dal freddo ed i pantaloni da rami o spini per evitare che la sera tornando a casa la moglie fosse costretta ad aggiungere ulteriori pezze” (Santini; 2018).

Foto di Luca Marcantonelli e Lucia Paciaroni

La seconda fase consisteva nell’esecuzione di riti cerimoniali veri e propri dove ci si raccomandava per avere il massimo dell’abbondanza: da sempre il corteo carnevalesco fa sosta negli spazi più ampi dei due paesi per cui si snoda e, all’ordine del capo zann che, con un fischietto, impartisce il tempo ed il senso di marcia, tutti gli zann si dispongono a cerchio tenendosi per la staiola l’uno con l’altro e saltellando in una danza vorticosa, ora in un senso ora all’inverso, ritmata dal suono incalzante dell’organetto, dentro il quale si trovano gli sposi. La gestualità tipica rituale evocata da questa danza è assolutamente simile a quella applicata durante i riti propiziatori degli antichi romani.

Il ballo degli sposi all’interno del cerchio formato dagli zann è simbolo di un rito beneaugurale sia per la fertilità della donna che della stalla. Molti antropologi hanno visto nel saltarello ballato dagli sposi al centro del cerchio l’atto magico della fecondazione, il risveglio del seme dal letargo vegetativo che si accresce verso l’alto a produrre una nuova pianta. Proprio per questa valenza di tipo quasi sacerdotale che investe lo zann, che con i loro gesti e passi cadenzati ricordano antiche gestualità rituali, Santini ne individua la potenziale origine dai fratelli Arvali, la personificazione dei Lari al capo dei quali vi era Romolo e che eseguivano dei riti, chiamati “Carmina Arvalia”, volti ad aumentare la fertilità nei campi, consistenti nella recitazione di cantilene, movimenti circolari e saltellanti. Allo stesso modo l’origine potrebbe rintracciarsi, per Santini, nella confraternita dei Salii, fondata dal re Numa Pompilio, i quali, con il loro repertorio di gesti e canti sacri, vestivano con bianche tuniche ricamate coperte da un mantello porpora e sul capo un cappello conico con legate ai lati delle fasce colorate ed una verga nelle mani, compiendo dei riti propiziatori per la fertilità dei campi simili a quelli dei fratelli Arvali ed a quelli rievocati oggi dagli zann del carnevale storico. Il cappello a cono rappresentava una congiunzione di cielo e terra ed era tipico degli uomini che rivestivano un’alta carica religiosa. Qualche studioso ha visto delle simbologie nelle frange colorate della coccarda, che rappresenterebbero i germogli della vita vegetale nascente, e nei pon‐pons di lana che sarebbero delle rappresentazioni floreali. Tutta questa ritualità magico‐sacrale adoperata per favorire la semenza e caratterizzata da gesti ricorrenti (i salti e la circolarità su tutti) la possiamo ritrovare in molti aspetti che definiscono la liturgia contadina di febbraio e che rimangono visibili, ad oggi, nelle feste propiziatorie di fine mese e nelle tradizionali feste carnevalesche. Il Carnevale degli Zanni di Pozza e Umito dal 2011 rientra nei Carnevali storici del Piceno insieme a quelli di Castignano, Offida ed Ascoli Piceno.

Ascoli, Carnevale in piazza e carri delle scuole, 1957

Il “Carnevale in piazza” che si celebra ogni anno nel capoluogo di provincia rappresenta una situazione unica e diversa da tutte le altre viste fino ad ora. Per citare le parole di Balena diciamo che esso “non è “spettacolo” anche se ovviamente merita di essere visto” (Balena; 1984); lo spettatore che vi voglia assistere, non deve recarsi ad Ascoli con l’intenzione di “vedere” il carnevale ma “lo deve fare”, rendendosi cioè disponibile e complice allo scherzo ed al coinvolgimento, diventando esso stesso una maschera tra le tante. Chiunque, da solo o in gruppo, diventa in qualche modo protagonista del Carnevale storico di Ascoli Piceno: compagnie di amici, famiglie, classi scolastiche o maschere singole si susseguono in scenette spontanee (o “macchiette”) in ogni spazio libero di Piazza del Popolo, invadendo negozi ed esercizi commerciali in un ribaltamento surreale dell’ordine comune. Mattatori dell’euforia collettiva sono quei personaggi che, con ingegno e arguzia, si impegnano a reinventarsi ogni anno in una macchietta ironica o satirica, rappresentando in modi inimmaginabili detti popolari o situazioni di politica e di costume che riguardano fatti e personaggi noti nella società ascolana e non, e che sono la caratteristica essenziale del carnevale. In queste macchiette si riconoscono personaggi serissimi della vita cittadina, che con pungente sagacia ed abilissime doti sceniche, contribuiscono efficacemente al ribaltamento sociale imposto da Re Carnevale. Un tempo in queste giornate erano numerose le rappresentazioni di commedie teatrali. Nel XVI secolo il connubio tra teatro e Carnevale, come già visto presente anche in altre cittadine, è confermato da alcuni documenti che riguardano l’arrivo in città di diverse compagnie di attori comici “che fanno divertire la gente in linea con lo spirito festaiolo del Carnevale e con il clima culturale del Rinascimento italiano”; il teatro ed il sano divertimento avevano un’importanza fondamentale per “distogliere le menti dei giovani dalle aspre e sanguinose fazioni e lotte interne alla società nobile e ricca ascolana” (Luna; 1999). Già nel XV° secolo esistono degli Statuti volti a reprimere i “Giuochi pubblici” e gli “Spettacoli Carnevaleschi”, fenomeno che non accenna a diminuire il secolo successivo, quando nel 1520, con la città in grave agitazione, è severamente proibito ai ragazzi sopra i 14 anni l’uso della maschera (“ferre mascara set se mascarari”), con pene ulteriori se avessero avuto con loro delle armi. Con “Giuochi pubblici” si intendevano altri eventi carnevaleschi risalenti ai tempi feudali, quali “la Giostra” e “la corsa dei berberi”. Il combattimento della Giostra si svolgeva ad armi cortesi, “con aste broccate ed armi smussate, con il solo scopo di mostrare abilità e destrezza nell’arte di star in sella, di menar colpi e di ribatterli, e, soprattutto, di rovesciare di sella il rivale” (Luna; 1999). Nel XVII° secolo lungo il Corso avveniva una parata di carri allegorici, realizzati a spese dei nobili ascolani, mentre tra i figuranti mascherati si scatenavano battaglie di confetti (che, in origine, erano gusci d’uovo riempiti di talco o altra polvere profumata), in seguito sostituite da confetti veri e propri o da palline di gesso, a volte persino di travertino. I confetti si potevano acquistare da appositi venditori ad ogni angolo di strada e venivano lanciati dai figuranti alle donne, che ancora avevano il divieto di indossare la maschera, complici vezzose del goliardico scherzo. In una notificazione (sorta di regolamento di polizia) del 1825 si cita l’usanza dello “steccato”, di cui si era già parlato riguardo al carnevale di Offida, che quell’anno si tenne due volte nel mese di Febbraio. Nello stesso periodo, in alcune zone della campagna picena, continuava l’antico rito già individuato altrove, di andare in cerca di lardelli: “Le donne del popolo, con la testa e il grembiule ornati di alloro, impugnando nella mano sinistra uno spiedo e nella destra un cembalo, si presentavano danzando e cantando sull’aia dei contadini, Augurando con qualche buona canzone un buon carnevale, ricevevano in cambio dalla vergara delle salsicce e “lu lardielle”, un pezzo di lardo che veniva issato, quasi trofeo di vittoria, su uno spiedo. Così anche sulle mense dei più poveri si poteva far onore alla festa” (Luna; 1999). Per tutto il XIX° secolo si riscontrano moltissime notificazioni riguardanti la regolazione dell’utilizzo delle maschere: si potevano indossare dal giorno 18 gennaio fino alla sera del martedì che precedeva le ceneri, esclusi i venerdì, le domeniche ed altre festività; non si poteva suonare, cantare e fare baccano vicino ai luoghi sacri o di culto né tantomeno “imitare col vestiario di maschera quello dei Ministri del Santuario, e delle Autorità laiche né d’indossare vestiario di carattere satirico”; un passaggio conferma che l’usanza della maschera, a quei tempi, si era già allargata alle donne: “Rimane ciascuno esortato, segnatamente le donne, di osservare nel vestiario di maschera tutta la decenza consentanea al pudore, ed alla cristiana modestia”. Era, inoltre, severamente proibito portare con sé armi o bastoni che avrebbero causato incidenti pubblici e di “entrare con la maschera in viso nelle locande, osterie, e bettole, come ancora in Città mascherati di aggirarsi per istrade recondite, e per le campagne” (Luna; 1999). Si pensi se venissero imposte al giorno d’oggi delle regole così restrittive; probabilmente, il carnevale come lo conosciamo, non avrebbe da esistere.

Carnevale ascolano, giovani interpreti della scuola D’Azeglio al Caffè Meletti, 1960 ca.

Dal secondo dopoguerra il carnevale di piazza ci appare sottoforma di gruppi mascherati organizzati nel salotto di Piazza del Popolo, ed incominciano così i primi concorsi a premi per le migliori maschere dell’anno. Quei decenni donano ampio spazio ai gruppi delle scuole, con sfilate di carri dei bambini e concorsi a premi dedicati ai più piccoli, segno di quanto il carnevale a scuola fosse sentito e partecipato. Intorno alla metà degli anni ’70 la concezione del carnevale di piazza comincia a cambiare, nascono gruppi più ristretti, di due, tre o quattro persone, spesso amici e conoscenti che iniziano a concepire non solo la maschera intesa come costume, ma il soggetto da interpretare ed il contesto urbano in cui inserirlo. Una componente teatrale si insinua nel concetto di maschera carnevalesca, e spinge nella direzione verso cui il carnevale di piazza era già instradato, la satira popolare. Il modo che hanno gli ascolani di prendere in giro i loro stessi difetti, estremizzandoli sottoforma di personificazioni proverbiali e modi di dire, è un’analisi autocritica che merita di essere elogiata. Le prima maschere singole, o gruppi ristretti, si “esibivano” spesso in luoghi pubblici, a volte col consenso e la complicità del personale, a volte nella non consapevolezza generale, creando le situazioni paradossali che il buon carnevale richiedeva; obiettivi di queste macchiette rigorosamente improvvisate, che portavano il carnevale di piazza anche al di fuori di questa, i negozi, i bar, tra tutti lo storico Caffè Meletti che negli anni è diventato il cuore pulsante del carnevale ascolano, ma anche banche ed uffici pubblici, inconsapevolmente coinvolti in scenette comiche nei giorni del giovedì e venerdì, al di fuori quindi degli eventi programmati. “Da sempre riteniamo che il momento più alto del carnevale ascolano va in scena la domenica mattina: nella calma di piazza del popolo – che di lì a qualche ora diventerà una bolgia infernale di maschere, carri, amplificazioni e scenografie – scendono paciosi i singoli e i duo, che con il loro carnevale un po’ sottovoce sono l’emblema dell’arguzia ascolana. Solitamente prendono spunto da modi di dire ed espressioni dialettali, e su queste imbastiscono scenette e monologhi che, pur ripetitivi nel corso della mattinata, cambiano sempre in qualcosa. Così lo spettatore si sorprende ad andare dietro ai personaggi per vedere come andranno avanti, di quali sfumature si arricchirà la prossima “esibizione”, come faranno ad inventarsi qualcosa di nuovo” (P. P. Piccioni, “La Maschera singola al carnevale di Ascoli”, su “Flash” n.311, 2004, pp. 20‐21) . Qualche esempio di queste “esibizioni” che hanno caratterizzato il carnevale ascolano sul finire degli anni ’70 è contenuto nel minuzioso volume di Luca Luna: quella de “I manichini” è stata una scenetta del 1977 quasi estemporanea, ideata da Gigi Morganti e messa in atto grazie alla complicità dei proprietari del negozio di abbigliamento Di Sabatino che prestarono le loro vetrine ai giovani autori dello scherzo. I tre ambigui manichini attirarono su di loro l’attenzione di così tanti passanti in una sola mattinata, molti dei quali fermi per decine di minuti ad indagare la veridicità della cosa, che fu necessario l’intervento dei vigili per controllare il traffico sul Corso Mazzini. Gianni Nardoni ed Angelo Piciacchia, protagonisti dello scherzo, ricordano che c’era un via vai continuo di persone attirate dalla vetrina e che, per non rompere la bolla di magia che si era venuta a creare tra loro ed il pubblico, spesso per riposarsi dovevano farsi prendere da qualche assistente o commesso del negozio e farsi portare via proprio come dei veri manichini; il pomeriggio fu necessario l’intervento di altre comparse per diluire la folla di spettatori verso la vetrina che dava sulla piazza. Qualche anno dopo, nel 1983, un’altra apparizione importante fece molto scalpore tra il pubblico ascolano, suscitando, oltre ad una grande curiosità e stupore per la grandiosa quanto realistica riuscita dell’opera, anche un certo timore tra i presenti: Enzo Cenciarini e Mimì Cappelli portarono in piazza i Quadrumviri con “Il ritorno del Duce in Ascoli”, un’autentica ricostruzione storica con tanto di macchina di rappresentanza, divise d’epoca e discorso alla folla da una balconata (Luna; 1999). Queste performances non possono essere catalogate né come mascherate nel senso più tradizionale del termine, né come rappresentazioni teatrali, ma si pongono ad un livello di spettacolarità popolare autentica. Negli anni successivi cominciarono a sorgere i primi palchi, che istituivano quindi l’usanza della postazione fissa per una maschera singola o per un gruppo; in seguito, dai palchi si passò all’utilizzo di attrezzature per il suono come microfoni, casse e musiche registrate per dare alle rappresentazioni una più ampia risonanza ed una diverso impatto sul pubblico, come avviene tuttora.

Angelo Piciacchia, Gigi Morganti e Gianni Nardoni ne “I Manichini”, 1977

Quella di Buonuomor Favorito è la maschera più antica conosciuta del Carnevale di Ascoli Piceno, che apre i festeggiamenti cittadini. Il personaggio in costume, oggi interpretato da Amedeo Lanciotti, è stato istituito nel 2013, in seguito ad una serie di studi e ricostruzioni sui documenti d’epoca in cui ne venivano descritte le sembianze e le abitudini. Il personaggio, che appare citato in un’intervista del 1872, anno in cui ad Ascoli si costituisce la società carnevalesca “Sua Maestà BuonUmor Favorito”, fino alla fine del XIX° secolo usciva qualche settimana prima della festa di Sant’Emidio; era quindi una figura pubblicamente riconosciuta, ma adottata solo in seguito in chiave di maschera carnevalesca. Si dichiarava a proposito delle origini del Favorito: “Non era né gobbo, né losco e molto meno buffone. Era un uomo come tutti gli altri, ma colla differenza che il suo apparire era gioia universale; agli squilli della sua trombetta rispondevano evviva e gridi e schiamazzi; dovunque passava era salutato, riverito, benedetto e acclamato. Non usciva che una volta sola all’anno, e precisamente quindici giorni prima della festa di Sant’Emidio, quando sull’alto del campanile del Duomo, si poneano, come ora, le quattro bandiere rosse. Cavalcando un bel ronzino bianco come la neve, moveasi nel palazzo comunale, e percorrea lento e maestoso, dando fiato alla sua tromba, tutte le vie della città. Avea un cappello a quattro punte, abito, brache e panciotto metà giallo e metà turchino, le calze una nera e una bianca, ed una larga sciarpa rossa. Era il segnale dato alla baldoria, al tripudio, alla follia, con cui allora assai più che adesso, ogni buon divoto di Sant’Emidio faceasi dovere di solennizzare la festa. Ma un altro effetto del pari rapido e più importante producea l’apparizione del favorito, ed era il subito cessare di ogni funzione governativa. Per quindici giorni rientrava in vigore l’antico governo comunale, ma senza petrolio, senza barricate, senza distruggere i pubblici monumenti. Era una matta allegria, un’allegria pacifica, buona, ordinata, quando beninteso le troppe copiose libagioni non lo turbavano. Ora, come vedete, il Favorito redivivo ha cangiato mestiere. Tuttavia c’è da sperare che non arrivi meno gradito, e che i cittadini docili al suo invito vogliano insanire almeno “semel in anno”. Tanto che serve pensare ai debiti e alla miseria? Fra cinque anni meno ventiquattro giorni debitori e creditori, stomachi vuoti e stomachi coll’indigestione, saremo tutti spazzati via dalla coda di una cometa, e slanciati negli spazi immensi dell’universo” (“L’Eco del Tronto”, 4 febbraio 1872). Sempre in questo anno si inaugurò l’usanza, viva ancora oggi, de “lu trescò” della domenica di Carnevale, una sorta di veglionissimo nella maestosa scenografia della Piazza del Popolo, riccamente decorata di addobbi e festoni a tema. Oggi Buonumor Favorito inaugura l’inizio dei festeggiamenti il giorno del giovedì grasso ed affianca l’annuale Re Carnevale nella conduzione della manifestazione carnevalesca.

Enzo Cenciarini e Mimì Cappelli ne “Li Sfrigne”, 1977

Lu Sfrigne è oggi l’altra maschera tipica del carnevale ascolano, dalle sembianze diverse da quelle di Buonumor Favorito. Lu Sfrigne è una maschera povera, malvestita, rappresentato iconicamente con una giacchetta verde rivoltata (“reveddata”), ed un ombrello aperto da cui pendono aringhe marce (“le saracche”). “Non si piange addosso per la sua condizione, ma la vive e la legge in chiave bonariamente ironica” (Luna; 1999). Si potrebbe facilmente pensare che le origini della maschera de lu Sfrigne risiedono in quell’ espediente popolare che si avvaleva della capacità di adattarsi allo spirito della festa e di vivere il carnevale con i pochi abiti ed oggetti di facile reperibilità, purché contribuissero a caratterizzare in un certo modo il personaggio. Un testimone racconta come negli anni ‘60 gli uomini nati ad inizio secolo usavano vestirsi a carnevale in maniera povera ed ironica, con un pigiamone di flanella, ombrello e vaso da notte, rappresentando una personaggio che si può definire un anonimo antenato de lu Sfrigne (Stanislao Aleandri). Ma la maschera conobbe altri rappresentanti nei decenni successivi, riscontrando una certa popolarità e non più solo per necessità economiche, ma perché rimase sempre una maschera di facile realizzazione e dal successo assicurato. ). Nel 1983 nasce il desiderio di definire la maschera dandole un nome, così il gruppo “Ascoli 62”, l’Associazione Commercianti e Radio Ascoli indicono un concorso tra gli studenti delle scuole elementari e medie: fra più di 3000 cartoline, la giuria del comitato organizzatore dalla simpatia non comune, atipica sceglie all’unanimità “Lu Sfrigne” di Carla Scatasta, alunna della V° elementare (Luna; 1999). Il nome è il termine dialettale ascolano che sta per “simpaticone”, espressione che racchiude in sé svariate sfaccettature di carattere squisitamente popolare. La stessa Carla ci spiega la scelta del termine per indicare una persona dalla simpatia non comune.

“Na giacchetta reveddata
Su li spalle so’ vendata
So’ appiccate su l’imbrella

Do saracche e ‘na sardella
Che lu muse tutti tinte

So’ rrvate so’ lu Sfrigne.”

Lu Sfrigne è semplicemente la maschera più semplice, ma sempre efficace, per ridere e far ridere, che invita e coinvolge allo scherzo il pubblico con la sua estroversione e quell’inconfondibile puzzo di pesce marcio.

Gruppo mascherato a tema Sfrigne, 1983

Un’altra figura che voglio inserire nel panorama delle maschere tipiche del Carnevale di Ascoli, definendola “La Maschera” popolare ascolana per eccellenza, è quella del Domino. Ringrazio per questo la signora Erminia Tosti, moglie di Luca Luna, che mi ha introdotto ed illuminato sull’argomento di cui non si fa menzione nei testi in commercio. Il domino è una veste ricorrente in moltissimi dei carnevali italiani già dal XIX° secolo, e consiste in un lungo mantello con cappuccio, a maniche lunghe ed accompagnato da una maschera che copre interamente il viso, molto simile alle cappe di alcuni ordini religiosi; tradizionalmente veniva confezionata in raso o seta, per chi poteva permetterselo, ed i modelli classici erano di colore rosso o nero. Domino è anche detta la persona mascherata. La maschera rispondeva alla legge “sacra” della non riconoscibilità della persona che la indossava, ed era bella proprio per questo alone di mistero che la circondava. Incontravi un Domino che ti salutava o faceva scherzi e non sapevi se era un ragazzo o una ragazza, se lo conoscevi o no. Protetti dall’anonimato conferito dal domino, ragazzi e ragazze potevano farsi avanti reprimendo la paura di essere riconosciuti e respinti, in un gioco di innocente seduzione, o si poteva infastidire qualcuno, magari con un colpetto del manganello di carta che molti portavano con loro. Accadeva anche che il domino lo indossasse chi doveva uscire di casa durante il Carnevale non per partecipare ai festeggiamenti, ma solo per compiere delle commissioni o per questioni di lavoro che lo obbligavano a passare tra la folla eccitata del centro, così da non poter essere infastidito dalle altre maschere e potesse raggiungere indisturbato il suo obiettivo. In più casi i domino venivano abbelliti, decorati e magari personalizzati, mettendo così a discapito l’anonimato, con paillettes ed altri elementi che donavano un tocco di elegante lucentezza al rigore dell’abito. Così è stato dagli anni ‘50 e per tutto il decennio successivo. Purtroppo agli inizi degli anni ’70 il suo uso è degenerato: la maschera è diventata un pretesto per alcuni individui che la indossavano con scopi violenti, i manganelli venivano riempiti di sabbia e rivestiti con la plastica per fare male seriamente ad altre persone, spesso con pretesti personali. La crescita esponenziale e la gravità degli episodi si manifestò in maniera così evidente che il domino fu vietato come maschera, e, a causa dell’infelice uso che ne fecero le generazioni precedenti alla nostra, non apparve più nelle successive edizioni del carnevale ascolano.

Tre domino e un piccolo diavolo al carnevale ascolano, marzo 1962

La chiusura simbolica di ogni carnevale, alla sera del martedì grasso, prevedeva la presenza del fuoco. Come già visto a Castignano con la processione ed il falò de “li moccule” e ad Offida con i “v’lurd”, i festeggiamenti dovevano concludersi in un grande falò comunitario, che simbolicamente bruciava la figura di Carnevale, molto spesso rappresentata da un fantoccio, e preannunciava l’imminente arrivo della Quaresima. Probabilmente nel fuoco purificatore gli uomini vedevano bruciare tutta la pazzia di quei giorni di festa. In alcune zone, oltre a creare un simulacro che rappresentasse lo stesso Carnevale per renderne plausibile la morte in pubblico, si organizzava un vero e proprio “funerale” per il carnevale. A Pioraco la “morte di Carnevale” consisteva in una rappresentazione alquanto macabra, ma, a quanto risulta, molto amata dal popolo: Carnevale veniva portato in processione per le vie del paese dentro ad una bara, poi un giovane travestito da medico fingeva di operare l’altro persona che rappresentava Carnevale; “A un certo momento la mimica burlesca culmina con il lancio per la via dei presunti intestini dell’operato: intestini che l’improvvisato chirurgo, dopo averli presi in qualche macelleria, tiene ben nascosti fino al momento opportuno della sua finta operazione. Allora, dopo gli ultimi lamenti dello sventurato carnevale, il popolo con la candela accesa, finge di piangere il decesso e così tra una risata e l’altra, si aspetta la mezzanotte” (Eustacchi‐Nardi; 2014). La processione di Carnevale nella bara per il paese è riportato anche nelle testimonianze di alcuni anziani di Rotella, che ricordano di come prima avvenisse un processo al malcapitato figurante, accusato di dissipazione e bagordi ed infine bruciavano un pupazzo di stracci (“’u mammocce”) dicendo “E’ morto Carnevale, adesso gli diamo fuoco” ed erano tutti ubriachi fradici (Polia; 2012). Sempre a Rotella il Carnevale era personificato da un uomo grasso che mangiava cioccolato da un vaso da notte (“lu r’nale”). A Force, dove l’agonia del Carnevale prevedeva un risvolto meno inquietante e realistico di quello di Pioraco, un uomo travestito da dottore cercava di rianimare Carnevale con vino, marmellate e pastasciutta, prima che il fantoccio di paglia e stracci venisse gettato giù da un dirupo. In varie località del Piceno, come Colli del Tronto ed Acquasanta Terme, il fantoccio di paglia che veniva bruciato durante la morte di Carnevale veniva chiamato “v’lurd”, come ad Offida i fasci canne con cui si appicca il falò collettivo (Polia; 2012). Anche a Monsampolo del Tronto, già negli anni Trenta, si organizzava una parata mascherata in piazza, con enormi pupazzi che rappresentavano personaggi caratteristici e che venivano bruciati sul finire del giorno. Ad Ascoli Piceno, così come ad Acquaviva ed in altre zone della bassa valle del Tronto, si bruciava “la pupa”, un pupazzo a forma conica rivestito di paglia e stracci che ballava come una baccante (in qualche caso mossa da un uomo all’interno della struttura) e veniva poi salutato con un bel fuoco che costituiva l’addio ai divertimenti (Piccioni; 2014). A Spelonga i bambini si divertivano, durante il carnevale, a rappresentare “la Vacca”, con un lenzuolo, corna finte ed un campanaccio, il padrone, il compratore ed il sensale: “Quanto vuoi per questa bestia? Non ci si metteva mai d’accordo e con un colpo di bastone si faceva cadere una pignatta scappando nella confusione” (Camacci; 2019). Il martedì grasso si sfilava per il paese con un personaggio che rappresentava Carnevale ed un altro la moglie “Cecilia”, infastiditi e stuzzicati da un Diavolo tentatore tenuto a bada con una grossa catena di ferro. Mentre Carnevale veniva poi messo al rogo, bruciando col fantoccio tutti i mali dell’inverno trascorso, rimaneva in vita la moglie, Cecilia, che altro non era se non una rappresentazione della Quaresima, “una vegliarda baffuta con sette gambe come le settimane che separavano il mercoledì delle Sacre Ceneri con la Pasqua di Resurrezione” (Camacci; 2019). Nella messa in scena della malattia, sofferenza e morte di Carnevale, a Spelonga figuravano anche le maschere del medico, del dentista e del cuoco, che lo assistevano negli ultimi difficili momenti della sua esistenza. A Trisungo, un tempo, si poteva assistere ad una rappresentazione davvero realistica del corteo funebre di Carnevale, alla quale partecipavano uomini travestiti da preti e i “piagnoni”, elementi che aggiungevano credibilità alla teatralità della scena. Un’anziana racconta che spesso le persone che passavano lungo la Salaria si fermavano e si facevano il segno della croce, pensando si trattasse di una vera cerimonia funebre; “Ricordo una carnevalata meravigliosa: un sarto del paese, che era un vero comico, prese un biroccino e si vestì da Re Vittorio Emanuele e la moglie da Regina Elena; sfilavano per il paese tra il clamore della folla... L’evento fece epoca, perché il carro fin’ fuori strada, in un cespuglio di rovi, dopo aver incontrato un branco di pecore, mentre la regina, che non aveva mai visto delle pecore, gridava “I lupi! I lupi!” (Piccioni; 2014). Con l’accensione dei fuochi rinnovatori a chiusura dei giorni di festa e trasgressione del carnevale, si chiude anche questa panoramica sul carnevale nella storia popolare della nostra regione.

“Quist’anne lu carnevale ne’ lu senteme” con Enzo, Francesca e Flavia Cenciarini, Carnevale di Ascoli Piceno, 1995

Questo articolo si propone come una raccolta generica e sicuramente incompleta delle maschere e delle tradizioni carnevalesche marchigiane. Non può considerarsi un articolo integrale sul Carnevale, mancando tutta quella ingente mole che riguarda la cucina tipica nelle diverse province marchigiane ma anche i collegamenti e le similitudini con le tradizioni popolari dei carnevali a noi limitrofi, dell’Umbria e dell’Abruzzo; per offrire ai lettori un lavoro completo sarebbe necessario partire dalle celebrazioni de “lu Vecchiò” il giorno di Sant’Antonio Abate, passando per i riti propiziatori agricoli dello “scacciafebbrà” e fare l’ingresso nel periodo quaresimale concludendo con l’immagine de “la Vecchia” segata, affinché si crei un quadro generale e completo che ospiti tutte queste usanze dipendenti l’una dall’altra in un moto circolare perenne. Questo articolo potrà essere la base sui cui partire per il completamento della ricerca in un prossimo futuro, magari da concludere e pubblicare quando potremo tornare a rivivere nuovamente il Carnevale libero e spensierato nelle nostre splendide piazze marchigiane.


Bibliografia:
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G. Piccioni, “Alla ricerca delle tradizioni perdute...”, BIM Tronto, Ascoli Piceno, 2014
M. Polia, “L’aratro e la barca. Tradizioni picene nella memoria dei superstiti” vol. I “I mesi dell’anno: liturgia popolare ascolana”, Lìbrati, Ascoli Piceno, 2012
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https://www.treccani.it/vocabolario/arlecchino/
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https://it.wikipedia.org/wiki/Carnevale_di_Offida
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https://www.centropagina.it/attualita/mosciolino‐papagnoco‐burlandoto‐la‐storia‐delle‐maschere‐del‐carnevale‐anconetano/
https://www.lagruragazzi.it/wp‐content/uploads/2017/05/SCHEDA‐PERSONAGGIO.pdf
http://www.prolococastignano.it/carnevale‐storico‐di‐castignano
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Immagini:
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A. Santini, “Il Carnevale di Pozza e Umito. Uno sconosciuto da conoscere”, Acquasanta Terme, 2018

Virginia Gidiucci

Virginia Gidiucci nasce nel 1989 a San Benedetto del Tronto dove vive tuttora. Diplomata in Scenografia all'Accademia di belle arti di Urbino, lavora ad Ascoli Piceno come costumista per la Compagnia dei Folli. Grazie alla sua passione per la montagna...
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