L’ESTATE FREDDA DEI MORTI

Scritto il 29 Ottobre 2024 da Virginia Gidiucci


L’intenzione del seguente approfondimento è quella di indagare le antiche tradizioni popolari legate al culto dei morti in un’accezione acritica, che intende portare alla luce quanto di storico ci sia nelle pratiche moderne e perché la Chiesa abbia sempre ritenuto dissacranti alcune di queste superstizioni, condannandole un tempo esattamente come fa ancora oggi.

Il culto dei morti era intensamente sentito e praticato nella società rurale non solo marchigiana e le celebrazioni che si svolgevano dal giorno di Ognissanti fino alla fine del mese di Novembre erano occasioni per rendere omaggio alle anime dei defunti ed alle “anime sante”, che venivano ricordate ogni sera nelle case di coloro che si riunivano a recitare il Rosario ed orazioni di suffragio. “La pratica del rosario itinerante di casa in casa e la comunione d’intenti e di fede alimentata dalla preghiera comune offre un esempio del potere di socializzazione svolto dalla religione nelle società tradizionali” (Polia; 2012).

Ci sono pervenute moltissime testimonianze che riguardano prevalentemente l’uso di accendere dei ceri o dei lumi sulle tombe, in casa o alle finestre, con lo scopo di voler indicare la via ai parenti defunti che, si credeva, la notte dei Ognissanti sarebbero tornati a visitare le case che avevano abitato in vita. A Roccaraso “I morti lasciano i luoghi in cui penano, ed hanno libertà di tornare nelle proprie case, dove possono restare fino al giorno dell’Epifania” (Finamore; 1890). Prima di andare a dormire, alla vigilia della festa dei morti, a Rotella si lasciavano accesi accanto al focolare dei moccolotti (cerotti) e si alimentava il fuoco con legna grossa perché durasse a lungo (Polia; 2012).

In totale contrapposizione è invece un costume diffuso in Abruzzo per cui “la vigilia del giorno dei morti, in parecchi paesi, per esempio a Cugnoli, si ha cura di non lasciare nessun carbone acceso, nessuna lura o scintilla. Il fuoco è simbolo di vita; e invece deve commemorarsi l’estinzione della vita” (De Nino; 1879). A Campli “sulle lapidi le candele si mettono dalla sera, affinché i morti, che nella notte lasciano il loro sepolcro, possano servirsene” (Finamore; 1890). A Francavilla al mare “nelle case si fa ardere per tutta la notte qualche lume; perché ogni morto va a bere nell’abitazione che già fu sua” (Ibidem). Il 2 di novembre in Abruzzo era il giorno detto di “Tutt’i morti”.


Una credenza popolare abruzzese riguardava gli effetti indesiderati che si sarebbero potuti scatenare attraverso il contatto con la catena del camino: a Roccaraso “dalla sera del 2 novembre fino all’Epifania, si bada a non far oscillare la catena del camino, per non svegliare i morti che dormono in casa”, (Ibidem). Nelle Marche l’usanza non compare precisamente come descritta da Finamore, ma dalle Decisiones Prudentiales apprendiamo di una superstizione avente lo stesso soggetto materiale diffusa in questa regione almeno fino al XVII secolo: in una nota infatti si condannano apertamente “le donne che dicono, quando si toccano le catene, che sostengono la caldara, debbano ammalarsi li padroni della casa” (Crocioni; 2001).

Soprattutto, però, troviamo frequentemente un rituale legato al cibo, declinato nella formula di fare offerte alimentari ora ai defunti, ora ai poveri ed ai bambini. L’alimento sempre presente nelle tavole delle famiglie erano le fave, lessate come da tradizione, legume che già nell’antica Roma era collegato al concetto di morte ed alla celebrazione dei propri cari estinti; questo concetto si espande, in alcuni luoghi, a comprendere altri tipi di semi e legumi nella celebrazione popolare della festa, come ad Ascoli Piceno dove “quando ci si reca al Cimitero, molta gente magia i lupini; il che risale ad un’antica tradizione che considera questi semi di buon auspicio” (Balena; 1984). “Nell’Aquilano, come nel I di maggio, si usa dispensare ai poveri una minestra di legumi, detta ju granate” (Finamore; 1890).

Anche in Piemonte “il giorno dei morti si fa la visita al cimitero e sulla porta di esso, e per la via che vi conduce, una caterva di poveri domanda elemosina non per sé, ma per le povere anime del Purgatorio” (De Gubernatis; 1878). Ad Acquasanta Terme, si lasciava in cucina acqua e cibo per le anime dei defunti (Polia; 2012). A Vasto “prima di andare a dormire, chi può, mette tre conche, e chi non può, una, col ramaiuolo dentro, su di una tavola, con una lucerna o candela accesa, per comodità dei morti, che tornano a visitare la loro casa” (Finamore; 1890). A Campli e a Fara Filiolum Petri “sui davanzali mettono piatti di minestra, affinché ne mangino i morti che vanno in processione” (Ibidem). A Chieti, invece, “sulla tavola da pranzo, si mettono pane, acqua e un lume, da rimanere acceso tutta la notte, per far luce ai morti che tornano a casa. La mattina seguente quel pane si dà ai poveri” (Ibidem). A Pacentro, invece, “la mensa, nelle famiglie agiate, s’imbandisce esclusivamente pei morti. E si crede proprio che le anime dei defunti s’appressino all’imbandita mensa – forse per vedere se i vivi si ricordano dei morti? – La mattina poi i cibi si distribuiscono ai poveri (De Nino; 1879).

L’atto di carità nei confronti dei bisognosi era di natura scaramantica, più che di sincera condivisione: si riteneva infatti che attraverso questo gesto i propri defunti si sentissero tenuti in considerazione come se l’offerta fosse destinata direttamente a loro. Per questo motivo, poveri e mendicanti cui erano destinate le cibarie, recitavano preghiere per conto di chi li aveva sostentati. Ad Ascoli Piceno “si fanno anche elemosine ai mendicanti che chiedono e ringraziano dicendo “Sciè pè l’anema de’ li muorte tuò”. Anche questo, al di là della concezione del suffragio cristiano, è riferibile ai tempi remoti nei quali si riteneva che il bene fatto ai vivi si sarebbe potuto trasformare in bene per i morti. Questi, per sdebitarsi, avrebbero quindi potuto fare il nostro bene in quanto, conoscendo i futuro, avrebbero potuto guidarci nella vita” (Balena; 1984).

L’usanza è diffusa in molte altre zone dell’Italia,come ad esempio in Piemonte dove nel giorno di Ognissanti “finita la cena, non si levano le mense: lasciasi invece la tavola imbandita col resto delle vivande avanzate dalla cena. La notte, dicesi, verranno i poveri morti a cibarsene. Ma poiché i morti non arrivano mai, l’indomani vengono in loro vece i poveri vivi a domandare l’elemosina per le anime dei morti, dei quali sono i legittimi rappresentanti, e ricevono quei resti o una scodella in memoria dei cari trapassati” (De Gubernatis; 1878). La carità in alcuni paesi è invece devoluta direttamente alla chiesa: “al divino uffizio del vespro, in molti dei più piccoli comuni, portano al parroco, in chiesa, non soltanto danaro, ma derrate per la celebrazione delle messe” (Finamore; 1890).


Prima di proseguire ad elencare altre tradizioni tipiche del territorio abruzzese è opportuno fare delle comparazioni storiche che riguardano proprio il concetto di celebrazione funebre, prima di tutto individuando la festività pagana su cui poi la religione cattolica ha impiantato le sue ricorrenze religiose, il Samhain. Il Samhain, o Samonios come era chiamato dai celti insubri del nord Italia, è l’antica festa pagana celebrata tra il 31 ottobre e il 1 novembre che definiva il Capodanno celtico. Era questa una ricorrenza molto importante per gli antichi popoli, poiché rappresentava la fine del raccolto e quindi dell’anno agricolo. Nella dimensione circolare‐ciclica del tempo, caratteristica della cultura celtica, Samhain si trovava in un punto fuori dalla dimensione temporale che non apparteneva né all'anno vecchio e neppure al nuovo; in quel momento, il velo che divideva la terra dei vivi con quella dei morti si assottigliava, e i due regni potevano comunicare. I morti avrebbero potuto ritornare nei luoghi che frequentavano mentre erano in vita, e celebrazioni festose erano tenute in loro onore. Questo aspetto della festa non fu mai eliminato pienamente, nemmeno con l'avvento del Cristianesimo.

La credenza che in alcuni giorni dell’anno i morti tornassero nuovamente nei luoghi in cui avevano vissuto è diffusa in molte altre culture arcaiche. Presso gli antichi romani questo giorno era il cosiddetto Feralia, ultimo delle celebrazioni dei Parentalia, e si celebrava il 21 febbraio. Questo era il più solenne dei giorni sacri al culto dei trapassati. A differenza degli altri giorni nei quali le manifestazioni in omaggio ai defunti avevano carattere privato, durante i Feralia tra i romani era usanza recarsi a commemorare i propri defunti,portando con sé qualche dono. Tra le offerte rituali non comparivano solo fiori, ghirlande o spighe di grano, ma anche pane imbevuto nel vino e sale, disposti all’interno di vasi di argilla. I Feralia rappresentavano un giorno davvero importante per il popolo di Roma che, nel rendere omaggio ai propri antenati rispondevano alla credenza diffusa di poterne placare il loro riposo eterno. Per questo motivo, più che una possibilità, celebrare i defunti era una vera e propria necessità: con questa usanza non solo si rinnovava ogni anno la tranquillità dei morti che, varcando quel portale di congiunzione tra la terra e l’adilà e ricongiungendosi ai vivi, potevano circolare liberamente tra le mura della città. Ovidio narra una popolare leggenda secondo cui durante un periodo di guerra, presi dagli scontri, i cittadini dimenticarono questa tradizionale festività e, il giorno successivo, i morti, risvegliati dall’oblio, tornarono in superficie, spargendo ovunque panico e terrore.

Nella Persia antica, dove era tenuta in grande considerazione l’immortalità dell’anima, duranti gli ultimi dieci giorni dell’anno “in accordo colla tradizione popolare germanica, doveano le anime de’ beati, come quelle dei dannati al fuoco infernale temporario, visitare le case de’ loro proprii parenti, le quali perciò si ripulivano e si ornavano a festa” (De Gubernatis; 1878).


Nell’Alto medioevo la Chiesa latina si trovò a dover sradicare le credenze pagane legate alla ricorrenza del Samhain celtico; anche in questo, come in molti altri casi, si operò una traslazione più che una censura netta dell’antica festività rituale. Nella prima metà del IX secolo, Papa Gregorio IV spostò la giornata dedicata alle celebrazioni per i martiri dal 13 maggio al 1 novembre, estendendola a tutti i Santi; più di un secolo dopo, nel 998, Odilone abate di Cluny reintegrò il culto per tutti i defunti nella giornata successiva del 2 novembre, cominciando così a riconsiderare in chiave religiosa la festività tentando il distacco da quelle tendenze pagane che fino a quel momento l’avevano caratterizzata.

Nonostante ciò, ancora fino al secolo scorso, si confondevano nelle tradizioni popolari elementi sacri e pagani. L’individuazione del 31 ottobre come giorno di chiusura dell’anno passato e di riapertura al nuovo futuro è riscontrabile anche nella tradizione popolare abruzzese, che in questi giorni era solita celebrare il Capotempo (Capetièmpe). Questa festività, che comincia la notte del 31 di ottobre e termina quella del 12 novembre, rappresenta la chiusura dell’anno agricolo con la fine della semina e della vendemmia, che ricomincerà proprio con l’assaggio del vino novello per la festa di San Martino.

Dalle testimonianze che ci sono state lasciate in eredità dagli studiosi dei secoli scorsi, è facilmente intuibile come nella fantasia popolare la visione di una persona defunta in grado di ritornare per una notte nel mondo tra i vivi fosse curiosamente voluta e al tempo stesso temuta. In questi casi ci si riferisce loro come a degli spiriti alla cerca di una pace eterna, che hanno connotazioni ed atteggiamenti specifici in base al tipo di morte che hanno subito. “I morti per violenza, senza gli ordinari riti funebri, sono malefici e nemici dichiarati dell’uomo (…) Oltre a prendere quelle forme che a loro piace, gli spiriti, nell’immaginativa popolare, hanno altresì forma umana, e parlano, camminano, operano” (Finamore; 1894). Questi spiriti errabondi, detti àneme spèrze, in alcuni racconti abruzzesi a Pecina e Cerchio si recano ad assistere alla “messa dei morti”, che viene celebrata nelle chiese il 2 novembre da preti anch’essi defunti: “una fornaia, che non sapeva questo, alzatasi di buon’ora, andava ad accendere il forno. Nel passare avanti a una chiesa, che vide illuminata, credette che vi celebrassero la messa ed entrò. La chiesa era illuminata e piena di popolo. Inginocchiatasi, una sua comare, già morta, le si avvicina e dice: “Comare, qui non stai bene; va’ via. Siamo tutti morti, e questa è la messa che si dice per noi. Spenti i lumi, moriresti dalla paura di trovarti in mezzo a tanti morti”. La comare ringraziò, e andò via subito; ma per lo spavento perdette la voce” (Finamore; 1890).


Una storia identica a è stata raccolta a Vasto: “Una donna (Maria Suriani) andò di notte in chiesa per udir la messa dei morti. Una comare, già morta, le si avvicinò e le disse: “Va’, questa messa non è per te, ma per noialtri morti. La dice un prete che non l’aveva detta in vita; e la sentono coloro che non l’hanno sentita quando erano vivi. Se rimanessi qui mentre il prete dirà il primo Dominus vobiscum, cadresti stecchita”. La donna non udì a sordo, e andò via a gambe” (Finamore; 1894).

Oltre agli incontri fortuiti, ci sono anche riscontri di come alcuni, spinti dalla curiosità, ricercavano un incontro volontario con i defunti. A Chieti “uscendo dai loro sepolcri, i morti vanno in processione per le vie del paese. Chi fosse curioso di vederli, si mette a un crocicchio [il punto dove due strade si incontrano formando una croce], col mento appoggiato a una forca; e in tal modo vede passare prima tutte le anime belle, poi quelle degli uccisi e dei dannati. A uno che stava così a vedere, le anime belle consigliarono di rientrare in casa; ma la curiosità prevalse, e quel malaccorto, al vedere le anime dei tristi, morì dalla paura” (Finamore; 1890). A Fara Filiolum Petri si raccontava che “per vedere la processione dei morti, i quali, usciti dal camposanto, entrano nel paese per fare [visitare] le chiese, bisogna mettersi sotto la pila dell’acquasanta, con una forca a due punte sotto il mento, e tenendo in mano un gatto. Però, non lo fa nessuno, perché a vedere i morti cattivi, si muore dallo spavento” (ibidem).

De Nino ci racconta delle particolarissime usanze in uso a Sulmona e nel chietino negli anni in cui l’autore raccoglieva le sue testimonianze in cui molti troveranno dei chiari elementi di correlazione con quelle che sono in uso tutt’oggi importate dalla cultura anglosassone. A Sulmona, ad esempio, alla vigilia della commemorazione dei morti i giovani “trascorsa che sia gran parte della notte, si mettono in giro con pallottole di alce fresca o con secchio di calce stemperata e con pennello, e scarabocchiano di bianco tutte le porte di casa per dove passano; e quei scarabocchi battezzano per teschi e scheletri” (De Nino; 1878). L’usanza, evidentemente in voga tra i più giovani ma mal tollerata dai cittadini e dalle autorità, venne definitivamente debellata nel 1874 quando, ricorda l’autore, per il primo anno non si assistette alle opere di imbiancatura dei portoni.

De Nino descrive un’altra tradizione in uso tra i ragazzi di Chieti, che considerava meno dannosa di quella sulmonese ma comunque gravemente importuna: “essi si limitano a picchiare e ripicchiare tutti i portoni. Recano anche in giro delle zucche vuote con fori che vi rappresentano occhi, naso e bocca di un teschio con un lumicino dentro. Pongono questi arnesi anche sulle finestre” (Ibidem).


La stessa pratica è descritta in occasione delle celebrazioni di San Martino, che chiudeva il periodo del Capotempo abruzzese, ad Ortucchio, in provincia dell’Aquila. Qui, durante la sera della vigilia della festa dedicata al Santo, si assiste ad una sorta di processione delle zucche intagliate ed illuminate. “I giovinastridel paese ci si sono preparati per tempo. Ciascuno tiene in serbo una zucca vuota. (…) In Ortucchio, alla vuota zucca si fanno dei buchi a forma di occhi, bocca e naso. Dentro vi si adatta una candela. Nel cocuzzolo si legano due corni più o meno lunghi. L’operazione si compisce con infilare a un palo la cornuta zucca. Fatto notte, si accendono le candelette di questi strani lanternini, e si gira pel paese al grido di Viva San Martino! Viva le corna!” (Ibidem). Anche questa usanza doveva essere piuttosto invisa allo scrittore che aggiunge alla fine: “E io con un corno vi caverei un occhio! Se fosse lecito”.

All’inizio dello scorso secolo, una tradizione molto simile a queste che si praticavano in Abruzzo era ancora viva a Castelluccio di Norcia: “Nel tardo pomeriggio del 1 novembre, appena faceva buio, i bambini del paese, in gruppi di due o tre, portando un piccolo sacco di tela a tracolla, iniziavano a fare il giro delle case chiedendo la carità per i morti e per le sante anime del purgatorio. La carità che si riceveva erano fette di pane, noci, castagne, schianci, mele, acini secchi di zibibbo, fette di faratu, fette di farecchiata fredda, rarissime quanto ambite caramelle” (Iacorossi; 2023). Negli anni ’30, in mancanza delle caramelle, le donne regalavano un mestolino di semi di roveja che, messi a bagno nei giorni precedenti, acquisivano un sapore dolciastro che piaceva molto ai bambini. “Finito il giro delle case, si faceva l’inventario. Noci, castagne e caramelle, queste ultime se c’erano, si mettevano in tasca. Le fette di pane e di faratu ed altre cose che ai bambini non piacevano si mettevano in un recipiente e venivano portate al cimitero sopra le tombe dei defunti” (Ibidem).

Non bisogna pensare però che certe usanze e credenze fossero esclusive degli ambienti rurali o quelli più isolati che abbiamo menzionato fino ad ora. Anche le località di mare avevano le loro superstizioni riguardo la vigilia di Tutti i morti, legate soprattutto a terrificanti visioni notturne e che stabilivano dei divieti da cui nessuno poteva prescindere.


La notte di Ognissanti, infatti, era consuetudine che i pescatori marchigiani tirassero in secco le loro barche, evitando di andare i mare affinché nessuna rete venisse gettata per pescare: “chi avesse osato avrebbe tirato su solo ossa di naufraghi e avrebbe rischiato di incontrare la barca di Caronte” (Piccioni; 2014).

La figura di Caronte, nell’immaginario popolare dei pescatori di San benedetto del Tronto, può essere equiparata a quella di un “leggendario e crudele pirata dei tempi andati, (…) il quale, a capo di una ciurma di fantasmi assassini, scorrazza nella livida notte novembrina e arremba qualunque natante abbia il coraggio di sfidare i sacri divieti dei padri” (Principi; 2008). “Caronte è immaginato come capo di gente cattiva, ladri di mare, naufragati da chissà quanti secoli, che si presenta colla sua barca, quando si accendono i fuochi di Sant’Elmo, fa mostra d’investire le paranze, terrorizzando i marinai, poi dilegua nel buio della burrasca, senza recare offesa né danni. Dicono che i pescatori, per arditi che siano, non osino affidarsi al mare la notte dei morti, perché, gittando le reti, le ritrarrebbero piene di teschi; e incontrerebbero la nera barca di Caronte” (Crocioni; 1951).

Era convinzione comune anche che durante questa notte si scatenasse una tempesta in mare, “la vurrasca de li murte”, sicché un proverbio locale recitava: “li murte se vène ‘nfusse va’ via sciucche” (i morti, se arrivano bagnati, vanno via asciutti). Altrimenti, “se la tempesta non avveniva all’inizio del mese dei morti, immancabilmente si scatenava verso la fine, come recita la seconda parte del proverbio: “li murte se vène sciucche va’ via ‘nfusse (i morti, se arrivano asciutti, vanno via bagnati)” (Polia; 2012). Anche lo storico Allevi scriveva: “Non vi è pescatore, per ardito che sia che la notte dei morti voglia lasciar la riva ed affidarsialle onde. Gittando le reti in mare, ei le ritrarrebbe piene di teschi umani, o incontrerebbe la nera barca di Caronte, carica di anime dei naufraghi, e irrimediabilmente la manderebbe a fondo” (Allevi; 1894).

I tempi, dai racconti di Allevi e di Crocioni, sono decisamente cambiati ed oggi i bisogni di produttività hanno offuscato quelle che erano le antiche leggende rivierasche, classificandole come inutili superstizioni e dimenticando quei divieti che preservavano il culto alla memoria degli uomini morti in mare. “Un vegliardo del mare, tentando di riesumare dalla memoria qualche ricordo concernente Caronte e la sua tetra barca di spettri commenta: “Li motori ha’ finito tutto”. L’espressione, tradotta nel nostro gergo tecnico, suona così: settant’anni di deculturazione hanno prodotto il collasso della cultura popolare” (Polia; 2012).

BIBLIOGRAFIA
Allevi G., “Fra le rupi del Fiobbo”, Tommaso Stipa Editore, Ascoli Piceno, 1894
Balena S., “Folklore piceno”, Edit, Ascoli Piceno, 1984
Cattabiani A., “Calendario. Le feste, i miti, le leggende e i riti dell’anno”, Mondadori, Milano, 2003
Crocioni G., “La gente marchigiana nelle sue tradizioni”, Edizioni Corticelli, Milano, 1951
Crocioni G., “Superstizioni e pregiudizi nelle Marche durante il Seicento”, Ripostes, 2001
De Gubernatis A., “Storia comparata degli usi funebri in Italia e presso gli altri popoli indo‐europei”, Fratelli Treves Editori, Milano, 1878
De Nino A., “Usi abruzzesi” Vol. I, Tipografia di G. Barbèra, Firenze, 1879
Finamore G., “Credenze, usi e costumi abruzzesi”, Adelmo Polla Editore, Palermo, 2002 (ristampa dell’originale del 1890)
Finamore G., “Tradizioni popolari abruzzesi”, Edikronos, Palermo, 1981 (ristampa dell’originale del 1894)
Iacorossi G., “Castelluccio ‘900. Storie di Castelluccio di Norcia nel XX secolo”, Torino, 2023
Piccioni G., “Alla ricerca delle tradizioni perdute …”, BIM Tronto, Ascoli Piceno, 2014
Polia M., “L’aratro e la barca. Tradizioni picene nella memoria dei superstiti” vol. I “I mesi dell’anno: liturgia popolare ascolana”, Edizioni Lìbrati, Ascoli Piceno, 2012
Principi C., “Superstizioni e credenze dai marinai marchigiani”, in AA.VV., “Uomini e barche: cultura, memorie, tradizioni del litorale marchigiano”, Acquaviva Picena, 2008

Virginia Gidiucci

Virginia Gidiucci nasce nel 1989 a San Benedetto del Tronto dove vive tuttora. Diplomata in Scenografia all'Accademia di belle arti di Urbino, lavora ad Ascoli Piceno come costumista per la Compagnia dei Folli. Grazie alla sua passione per la montagna...
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