SAN GIORGIO AD GRANITUM - STORIA DI UN CONVENTO

Scritto il 30 Aprile 2024 da Virginia Gidiucci

Cartolina d’epoca

“Le ombre avvolgono d’un mistico velo l’eremo solitario. La strada per Ascoli scende ripida e tortuosa. Nel silenzio dell’ora s’ode solo il fragore del fiume”. (Gabrielli; 1947)

Guardando al vecchio romitorio di San Giorgio dal paese di Castel Trosino, per la maggior parte dell’inverno lo si vede così come descritto da Gabrielli, immerso in nuvole lattiginose che partono dense dal fiume Castellano ed arrivano quasi a nascondere lo scoglio di travertino rosa che rende inconfondibile il monte di Rosara. Non è tutto; San Giorgio sembra cambiare nel tempo, in una continua lotta con la natura che ora pare soffocare totalmente l’edificio, ed ora vede riaffiorare due archetti ed una finestrola, a ricordare che c’è ancora qualcosa ma soprattutto che ci è stato. Così, in perenne contrapposizione tra visibile ed invisibile, vorrei iniziare questo approfondimento dedicato alle due vite del convento di San Giorgio.

LE ORIGINI

Numerosi studiosi locali hanno ricostruito la storia dell’edificio dalle origini in maniera molto esauriente. Nella “Toponomastica marchigiana” (1952), Giulio Amadio lo cita come Santo Iorio de Gravina (lat. medievale: grava, area ghiaiosa), ma è indicato anche come San Giorgio ad granitum o de granito, per via della collocazione sotto la roccia di travertino che costituiva anche la materia prima del convento, esternamente ed internamente. L’edificio compare nel 1354 nelle Cronache Ascolane come San Giorgio in Salmasio, per via delle fonti di acqua detta “salmacina” che nascono dalla sinistra orografica del Castellano. Proprio a questa caratteristica si dovrebbe il culto locale a San Giorgio: la puzza di acqua sulfurea che emanavano le sorgenti era evocativa di qualche entità malefica, di un “diavolo nascosto nelle viscere della terra”. (Balena; 1984)  

Questo tipo di acqua é lievemente sulfurea (non come quella di Acquasanta Terme), la sua temperatura é abbastanza elevata (15° circa) e l’origine è proprio sul fianco del colle di Rosara che di fatto si trova sul prolungamento del versante montuoso dell’Acquasantano.


Castel Trosino e il fiume Castellano

Poco distante dalla prima polla, collocata sul versante del colle San Marco esiste una seconda sorgente di acqua a grosso contenuto di sale minerale del ferro (“ferrigna”), infatti la zona é completamente colorata di tonalità del rosso ruggine. Tale acqua ha anche altri contenuti di sali minerali e componenti quali l’arsenico (in dosi molto modeste), ciò la rende particolarmente indicata per alcuni tipi di malattie.

Ricordo che molte volte mia nonna, sentendo odore di zolfo in casa, si faceva il segno della croce e mi imponeva di fare altrettanto, “perché lo zolfo significa che c’è il diavolo in casa”. Il culto al santo guerriero è inoltre tra i più importanti per i longobardi che nel medioevo avevano conquistato l’entroterra ed erano stanziati in tutto il circondario. Le sorgenti salmacine erano già conosciute e molto apprezzate in epoca romana, tanto che fu costruito un lungo acquedotto (di cui oggi si possono vedere le tracce nei pressi della diga di Casette) per deviarle nelle terme di Ascoli e l’intera zona boschiva potrebbe essere stata un luogo di culti pagani. Carfagna ipotizza che durante le dominazioni barbariche, prima i goti poi i longobardi sfruttarono l’edificio come fortezza militare, ottima per la posizione elevata ed opposta a Castel Trosino e con lo sguardo aperto sulla valle che costituiva un passaggio di fondamentale importanza attraverso l’Appennino. “Il monastero costituisce un esempio delle numerose trasformazioni di strutture di avvistamento e segnalazioni in edifici culturali avvenute in Italia”. (Alesi; 2010)

Gabrielli rispetta la tesi di alcuni studiosi secondo cui il romitorio fu costruito nel 1343 per volere di una gentildonna ascolana di nome Livia Martelleschi: al convento era annesso un lebbrosario che forse avrebbe dovuto sfruttare gli effetti benefici delle acque sulfuree sottostanti e fu lasciato in eredità ai frati gerosolimitani di San Giovanni. Altri studiosi locali affermano invece che la struttura fu affidata ai seguaci di Fra’ Angelo Clareno da Cingoli, un minorita dedito con i suoi adepti, detti frati Clareni, al pauperismo ed alla dottrina della povertà assoluta.  

Nei documenti dei secoli successivi non appare mai un gran numero di frati abitanti il convento; nel 1816, caduto l’Impero Napoleonico e restaurato lo Stato Pontificio, fu affidato a dei religiosi che ricostituirono una piccola comunità francescana, “conducendo vita esemplare ed operosa fino al 1866”. (Alesi; 2010).

In questo anno il Regio Governo ne ordinò la chiusura ed il trasferimento dei frati al convento della SS. Annunziata ad Ascoli Piceno. “Così fu l’epilogo del romitorio di San Giorgio, che per il lungo corso di quattro secoli aveva accolto tra le sue mura pii religiosi che ora venivano trasferiti all’Annunziata, spogliati anche di oggetti di cucina, frutti dell’orto e prodotti del bosco, venduti ad esclusivo profitto delle finanze dello Stato”.(ibidem)  

Da qui in poi il convento fu luogo di ripetuti furti ed atti vandalici ai danni di mobili ed arredi sacri e si tentarono varie strade per trovare una soluzione definitiva al problema dell’abbandono del sito all’incuria: si tentò l’affido al Municipio di Ascoli Piceno affinché vi fosse collocato un polo scolastico di riferimento per le località di Villa Rosara, Monte Rosara e Castel Trosino, ma il Municipio affittò le stanze a privati e con il ricavato preferì mantenere le scuole di Castel Trosino, più comodamente raggiungibili. Nel 1889 fu acquistato da padre Sante Scaramucci, “una singolare figura di educatore che vi teneva una specie di collegio scolastico”. (Galiè, Vecchioni; 2014) 

Padre Sante Scaramucci che accoglie delle gentildonne in visita al convento

Nel giro di un anno padre Scaramucci risistemò a sue spese il convento e cercò continuamente aiuti dai suoi superiori che però si disinteressarono completamente alle sorti dell’edificio, considerato ormai solo come l’abitazione privata di un religioso. (Alesi; 2010)

Nel 1907 morì padre Scaramucci e nel 1912 fu pubblicato l’avviso di vendita della “tenuta detta Convento di San Giorgio (…) della superficie complessiva di ettari 27, 38, 40 (…) Il convento è così composto: refettorio, cucina, retro cucina, legnaja, vano per deposito di carbone, altro con fontana per lavatojo, stalla, cantina, grotta, loggia con sette archi che guarda a mezzogiorno, e chiostro interno con varie arcate. Al primo piano vi sono oltre a tre corridoi  numero dieci sette camere abitabili separate ed un magazzino. Vi è inoltre una vasta chiesa, sacrestia e retro sacrestia, torre con campane ecc. mobili e mobilia che arredano la chiesa stessa che al presente viene ufficiata. Annessa al convento trovasi la casa colonica composta di quattro camere con cucina, stalla per bovi ecc. Il convento che trovasi in posizione amenissima ed elevata, ha la sua entrata a nord passando per un piazzale che sta di fronte al loggiato della chiesa. I due lati principali del vasto fabbricato guardano a mezzodì e a levante, ed hanno una visuale estesissima. Il loggiato esterno composto di sette archi cui si accede dal piano terra, è verso sud, e da esso scorgesi il sottostante paese pittoresco di Castel Trosino, la vallata del fiume Castellano e tutti i colli circostanti”.

L’atto di vendita, redatto il 23 marzo 1921, riporta le firme del venditore Signor Pirro Cerquetti e degli acquirenti, i Signori Mattia Antonucci, Emidio Tassi e Michele Tassi, “il primo nella ragione di una metà e gli altri due per l’altra metà”. Queste tre famiglie, con le loro discendenze, saranno gli ultimi abitanti dell’ex convento che, dalla metà degli anni ’60, verrà completamente e definitivamente lasciato al suo lento decadimento.

MATTIA, EMIDIO E MICHELE

Per ricostruire un quadro di vita degli abitanti dell’ex convento di San Giorgio mi sono rivolta ai nipoti dei tre uomini che si stabilirono lì negli anni ’20 con le loro famiglie; il risultato rappresenta un frammento di vissuto immaginato attraverso le testimonianze dei nipoti di Emidio Tassi: Lia Anna di 91 anni, Emidio “Mimì” di 87 anni e Franca Tassi di 78 anni, che ringrazio sentitamente.  

Originari Antonucci di Casette e i due Tassi (non imparentati) di Castel Trosino, i tre partirono insieme per l’America lavorando oltre oceano per breve tempo, Emidio e Michele come operai mentre Mattia fu arruolato nella divisione italiana dell’esercito americano durante la Grande Guerra. Dopo qualche anno ed in seguito ad un incidente di Mattia in un’operazione militare, tornarono in Italia con dei risparmi acquisiti negli Stati Uniti e cominciarono a cercare una sistemazione adeguata dove vivere con le rispettive famiglie e che garantisse anche una certa sussistenza in termini di terreni coltivabili. Il convento ormai semi abbandonato, arroccato sotto la roccia caratteristica di Rosara, sembrò perfetto per i Tassi e gli Antonucci che acquistarono immobili e terreni da un tale Pirro Cerquetti, usciere del tribunale di Ascoli, che ottenne così l’assegnazione di alcuni pascoli in usufrutto per il mantenimento dei cavalli ed un compenso annuale in fascine di legna. 

Emidio Tassi era nato nel 1881 ed era il più grande dei tre uomini, comunemente detto “Trendaddó” (Trentadue), per via del numero di matricola assegnatogli nella cava di travertino di Castel Trosino dove lavorava come operaio. Anche i nipoti lo appellavano “nonno Trendaddó”. Alcuni lo chiamavo anche “Middie lu More” o più precisamente “Middio de Annetta la Mora”, conseguenza del soprannome dato ad Anna “Annetta” Marozzi, moglie di Emidio. Prima di comprare a San Giorgio viveva in un’abitazione al Casarino, dentro le mura di Castel Trosino.

Michele Tassi, “Zicchiele” o “Zicchié”, era nato nel 1883 ed era anche lui originario di Castel Trosino, sposato con Anna Antonucci e quindi affine alla famiglia di Mattia, il più giovane dei tre nato nel 1892 e sposato con Rosa Rosa. Mattia Antonucci è descritto come un uomo molto elegante e distinto, di bella presenza. Grazie alla sua esperienza nell’esercito americano aveva anche appreso nozioni di lingua inglese e i risparmi che aveva cumulato gli consentirono una parte più cospicua delle proprietà di San Giorgio. Era anche l’unico che aveva a suo servizio per qualche mese dell’anno un contadino, che si spostava appositamente con la numerosa famiglia per lavorare nei terreni padronali.

IL CONVENTO

L’interno della struttura fu suddivisa a seconda delle percentuali di proprietà. Ogni famiglia aveva la propria cucina, una propria sala e delle stanze da letto. La famiglia più numerosa dormiva nelle camerette una volta appartenute ai frati, sopra il loggiato a sette archi che guarda verso Castel Trosino ed altre camere si trovavano sul lato opposto, sopra l’ingresso con i tre archi a volta in un angolo della costruzione che oggi è quasi del tutto franato. Era presente una scalinata di 24 gradini in travertino che collegava i due piani, trafugati anche questi dopo l’abbandono dei locali. Al piano terra c’era una cucina che era stata dei frati, poi divenuta proprietà della famiglia Tassi, dove si trovava un lavello lungo più di due metri scolpito in travertino locale. Anche il camino presente nel refettorio era frutto di un raffinato lavoro di bocciardatura ed aveva dimensioni imponenti “ci entravano più di dieci persone lì sotto”. (E.T.)  

“Sotto mio padre metteva i fusti di quercia interi”. (L.A.T.)  

Uno degli angoli esposti a sud del caseggiato è stato ampliato nella parte inferiore intorno agli anni ’50 per dare alloggio alla numerosa famiglia del contadino di Antonucci. La parte superiore aveva una finestrella, poi murata, con un’inferriata. “Ci stava ‘i cuos’ dove i frati c’aveva ‘lu sole a quadruccë’ (…) e là in quella stanza ci stava ancora il lavello, era bellissimo era tutto in travertino, con tutta la chiavetta dell’acqua, perché ci faceva andare l’acqua sia per lavarsi che per bere. E quelle era le carceri”. (L.A.T.)  

“Visitando il caratteristico romitorio si osserva con curiosità presso la cucina, una piccola stanza, chiusa da robusta porta di rovere, ove si chiudevano i religiosi indisciplinati”. (Gabrielli; 1947)  

La chiesa e la sagrestia fino agli anni ’50 erano ancora perfettamente funzionanti ed in qualche occasione ospitavano le messe. Oggi il tetto è crollato, la chiesa è completamente svuotata ed un’enorme pianta di fico ha occupato gli spazi interni che una volta erano affollati di fedeli il 23 di aprile. C’era una torre campanaria, iniziata a crollare con il terremoto del 1943 ed oggi definitivamente scomparsa. Il seminterrato ospitava diverse stanze adibite a cantine: “Là la cantina ai tempi c’avevamo sempre le botti, il vino e l’uva ce ne stava tanta; alla notte me ricordo perché ci stava le guardie, girava, non se poteva vende il vino (…) non si poteva fare, il dazio … ‘ste cose qua. E c’avevamo dentro a la cantina, era scavato sottoterra, ci stava mi pare quattro o cinque scalette pe’ scende giù sotto, e giù sotto era fatto a mattoncini, era bello, e là al muro era fatto tutte grotticèlle scavate lì dentro. Era fresca più del frigorifero, quando andavi a pijiàre non se poteva mangia’. Allora i cocomeri, il vino, tutto giù dentro mettevàme, la carne”. (L.A.T.)  

“All’ingresso de San Giorgio i frati avevano istituito una scuola per la lavorazione del travertino, dove bucciardavano il travertino, lo lavoravano lì davanti e facevano delle sculture praticamente. Non se lo ricorda nessuno eh, però intorno a San Giorgio non trovi tutti massi grossi, trovi tutta roba, scagliette, perché parte di Ascoli, il travertino di cui è fatta Ascoli in buona parte veniva da San Giorgio che con le traglie caricava i pezzi e li portava giù (…) e all’ingresso della chiesa, sono venute a mancare purtroppo, ci stava due acquasantiere una a destra e una a sinistra, era a forma di quadrifoglio. Mo’ ci sta solo i buchi riattappati di dove stava le acquasantiere perché è state smurate e portate via”. (E.T.)

I RAPPORTI SOCIALI

“Il contadino rimaneva sempre un po’ comune a tutti quanti, cioè in buoni rapporti normali. Mentre nelle tre famiglie c’era sempre la discordia, allora si litigava questo co’ questo qua no?, e questo rimaneva isolato; poi dopo a un certo momento se girava l’aria, questo e questo andava d’accordo e questo rimaneva isolato. A rotazione, era un litigio continuo (…) però era una tradizione, tutti e tre d’accordo era raro che li trovavi”. (E.T.)

“Litigava, ma può darsi pe’ nu confine, pe’ ‘na stupidaggine, dopo otto giorni nen era più niente e puó se si stava cattivi, il giorno di Natale si rifaceva pace e ci si invitava tutti e tre”. (L.A.T.)

I bambini che crescevano insieme nell’edificio in comune a volte stringevano legami più forti che con gli stessi fratelli e sorelle. Lia Anna e Angela, quasi coetanee, si accompagnavano a vicenda a svolgere le faccende; portavano il grano a macinare al mulino di Cesano, a mulino “su’ le Cenga” (prima della diga di Talvacchia) o a quello di Porta Cartara e quasi sempre a pascolare le pecore. “L’amica mia! (…) se faceva comunella da quando siamo nate”. (L.A.T.)

I fratelli Maria, Lia Anna, Emidio e Franca Tassi con altri conoscenti

LUOGHI

Un tempo il reticolato di strade che collegavano San Giorgio alle terre e alle località vicine era molto più fitto e i sentieri erano sempre ben battuti. Le stradine rimaste per raggiungere San Giorgio sono tre: una che parte da Coperso e raggiunge il convento da sud, una che sale dalla diga di Casette ed una che taglia il Monte di Rosara, la più comoda e facilmente percorribile. All’inizio del largo sentiero si trova sulla destra la fonte di Saccioni e proseguendo si incontra un terreno scosceso a valle detto il Sette che arrivava fino alle proprietà di Emidio Tassi, dove c’era una croce posta dai missionari francescani al lato della strada. Sotto la strada avevano una stalla in mattoni costruita poco sopra uno spiazzo, la Piana, dove tenevano l’aia e le altre bestie. (F.T.)

Numerose le sorgenti naturali; “I frati addirittura la portarono (l’acqua) dalla Sentina (…) c’era una condotta di terracotta e loro addirittura la portavano nella loro cucina”. (E.T.)  

La sorgente naturale che ha alimentato per secoli gli abitanti del romitorio sgorga poco più a monte del convento, sotto la rupe di Rosara, dove i frati avevano creato una Sentina (deposito di acqua sorgiva). Da questa si sviluppava un lungo condotto in terracotta che correva parallelamente alla stradina poco più in basso, sorretta da un muretto a secco, e poi tagliava perpendicolarmente il versante portando l’acqua all’interno della cucina del convento. La strada della Sentina, un tempo più larga di quella che si percorre oggi arrivando all’eremo da Rosara e che si snodava parallelamente sopra a questa, era comunemente chiamata la strada dei ‘ciuottë’, poiché un giorno il contadino che lavorava per Giovannozzi, ricco possidente del Monte di Rosara, passando sulla strada con la traglia, disintegrò parte del condotto in terracotta che svoltava verso valle creando un ammasso di detriti che scompose il manto stradale rendendolo disagevole.  

In seguito gli abitanti costruirono una fonte in mattoni con un capitello in travertino proprio nello spiazzo di fronte all’ingresso da borea alimentata sempre dalla Sentina a monte del convento. Un’altra fonte, dotata questa di un’ampia peschiera, era la Fonte dei Corvi (Fonte dei Cuorvë”), situata vicino ad uno stradino che portava all’ingresso da sole e comodamente locata per l’irrigazione dei campi; l’ampio vascone di pietra ne faceva il luogo ideale per lavare i panni e anche per la macerazione della canapa. La zona a monte del convento era adibita all’estrazione del travertino e c’erano cave di medie e piccole dimensioni, dove si lavorava su terreni impervi in costanti situazioni di pericolo. Tutto intorno a San Giorgio è un costante ripetersi di cavità naturali, utilizzate un tempo dagli abitanti e proprietari terreni come rimessa per i prodotti che venivano estratti da quelle terre disagevoli, oggi tane per animali selvatici.

ALLEVAMENTO E AGRICOLTURA

C’erano le pecore, “quattre o cinque giuste pe’ famiglia” (L.A.T.), che venivano affidate ai bambini per il pascolo. Gli agnelli potevano nascere una volta all’anno per Pasqua, se andava bene anche uno per Natale ma non se ne mangiava spesso di carne. La famiglia Tassi aveva un manzo, una capra, galline, conigli e maiali. “Su’ casa per esempio faceva ‘la scrofa’: faceva nasce i maialetti su casa mia, poi si vendeva. Ne faceva sempre più de dieci”. (L.A.T.)  

Le bestie di solito erano riunite tra l’aia e la stalla sopra la piana, ma quando c’era il rischio che passassero le guardie a chiedere il dazio, capitava che maiali e pecore venissero nascoste nelle grotte raggiungibili dai sentieri che si snodano sotto il convento. Le terre, divise per percentuale di acquisto, erano scomode e poste su ripidi pendii ed ogni zona era delimitata da muretti a secco. L’irrigazione si effettuava quattro volte alla settimana, due volte spettavano alle colture di Mattia e due giorni venivano divisi tra Michele ed Emidio. “Là a San Giorgio stavamo troppo bene, appress’ a quelli de Castel Trosino perché là nen è che c’aveva tanta terra. Su’ noi ‘ncominciavamo a San Giorgio e andavamo a fini’ giù al Castellano”. (L.A.T.)  

Tutti avevano la propria vigna, il proprio orto, il posto dove si coltivava il grano,  molti frutteti ed erano piuttosto autosufficienti. Certo, non tutto il grano che si coltivava bastava ad una famiglia per un anno intero, a volte si doveva ricorrere all’acquisto ed anche loro hanno risentito dei rincari alimentari sotto il periodo della guerra. Si coltivava principalmente grano, granoturco, beccia (legume), lenticchie, fagioli, patate, frutta a volontà, “veniva da sola buttando là gli avanzi”. (E.T.)  

Soprattutto meli, ma anche ciliegi e poi i vigneti. Davanti all’ingresso nord del convento c’era un lungo pergolato coperto da viti di uva vacchëra (uva bianca, con acini e grappoli di notevoli dimensioni). I vigneti erano di varietà mista, c’erano lu montónëchë (montonico: uva bianca da vino caratterizzata da chicchi molto grossi e pressati), il trebbiano, la passerina e c’era il barolo. Proprio sotto alla stanza punitiva dei frati era situato un piccolo orto diviso in due, dove da una parte si coltivavano i carciofi e dall’altra la canapa. La canapa veniva lavorata dal principio fino al prodotto finito: “La fonte dei corvi serviva per macerare la canapa; la canapa si piantava, si mieteva, si metteva allo spurgo in acqua, per 25‐30 giorni si lasciava lì a macerare e quando era macerata, lu stelo  della canapa magari due metri alta non lo so, li vucëne ce facevame, cioè li vucëne era il supporto della canapa, della corteccia della canapa, che era una corteccia a fibra lunga e quando tu la rompevi si separava la corteccia dal fusto principale; nello spezzare sbattevi così e usciva dei mazzi bianchi come le canne. Dopo un mese di macerazione se liberava. La canapa veniva poi vagliata sul canovaccio, si tritava tutto, si sgrullava poi si passava sul pettine (…) ci stavano i pettini che stavano larghi e facevano cascare le impurità, poi passavi sul pettine più stretto e poi quello che ti dava il fiore di canapa. Dopo con questi fustelli di canapa si usava, durante il periodo della mattatoia dei maiali, per pulirlo (…) si bruciava con il fuoco, allora si alzava la pelle poi con un raschiatutto, un coltello che non tagliava, pulivi e rimaneva la pelle pulita sotto e tutti i peli veniva portati via co’quello. Si doveva sta’ attenti a non fallo sta’ troppo sennò se bruciava pure la pelle”. (E.T.)  

La canapa veniva poi filata con la conocchia: “Pigli la stoppa, la canapa grezza, e si passava e con il fuso si faceva girare, e si faceva il filo lungo, poi si sganciava, si arrotolava sul fuso e ricominciavi (…) tu tiravi piano piano, controllavi la quantità di fibre che veniva e quesso s’attorcigliava (…) quindi c’era l’abilità di scegliere la quantità di fibre con quelle da avvolgere e con il fuso quelle che veniva fuori dalla mano tua si attorcigliava. ‘Na volta ne passava puoche, ‘na volta truoppe, e venéva li toppe, come i nodi, e quando tu le andavi a tessere quella la usavi pure però puó quando andavi a letto se te pizzicava la schiena basta che facevi così (…) i lenzuoli questo era”. (E.T.)

A San Giorgio era presente anche il telaio, nella stanza che fu il refettorio dei frati, dove Anna tesseva tovaglioli, strofinacci, lenzuola e il tessuto per confezionare poi gli abiti. Anche la tintura dei filati spesso era eseguita dalle donne di San Giorgio, che usavano le foglie delle piante per ottenere i marroni, alcuni legumi ma soprattutto il mallo delle noci che dava “un giallo terribile che risciacquato non andava via, il giallo rimaneva sempre”. (E.T.)  

“Proprio sotto alle logge ci stava un pezzo di terra nostro, e ci stava uno di Rosara che aveva messo le api, erano quasi quindici se non era venti cassette di api, perché là era sempre caldo sotto alle logge; però quand’è de maggio se levava il miele, si metteva la maschera poi andava dentro la chiesa, chiudeva, se metteva proprio vicino al portone e smielava tre o quattro quintali de miele portava via (…) a noi ci dava sempre dei barattoli così aveva quattro o cinque chili di miele che si ripondeva pure per l’inverno. Lo zucchero non se trovava allora pijiavamo un cucchiaio de ‘sto miele alla mattina facevamo il latte, c’avevamo la capra e si faceva pure la marmellata”. (L.A.T.)  

SERVIZI

A San Giorgio arrivò la corrente elettrica dopo la costruzione della diga di Casette (1926‐1928); vennero disposti dei collegamenti che dalla centrale arrivavano fino al Monte di Rosara e fornirono l’illuminazione per tutta la zona circostante. La diga fu distrutta dai tedeschi in ritirata nel 1944 e ricostruita nel 1947. “In periodo di guerra, quando i tedeschi fecero saltare la centrale quaggiù siamo rimasti alcuni anni senza corrente, e allora si andava avanti o con l’acetilene o con il lume a petrolio, e si andava a raccogliere l’olio dei trasformatori giù della centrale che erano saltati”. (E.T.) 

L’acqua era fornita dalla Sentina poco a monte del convento sotto le vene di Rosara e tramite il condotto costruito precedentemente al loro arrivo consentì agli abitanti di avere l’acqua in casa. Anche “il cesso” era stato disposto all’interno dell’abitato, in uno stanzino ricavato in cima alle scale e che scaricava in una latrina più a valle. La fonte che fu costruita di fronte all’ingresso fu ampliata anni dopo dal comune, che fece costruire un piccolo caseggiato con lavatoio e convogliò qui l’acqua della sorgente Pescara.  

ANIMALI

Emidio Tassi (Trentadue) con il cane Fufi

“C’avevamo innanzitutto il somaro, perché il somaro era la parte forte di tutti i lavori”. (E.T.)  

Le tre famiglie avevano un somaro a testa. Era senza dubbio l’animale più vantaggioso per uno stile di vita che richiedeva il trasporto di grossi pesi portati a spalla su ripidi e scomodi sentieri, alleggerendo notevolmente il carico di lavoro se veniva utilizzato per lo spostamento del grano al mulino o della legna da vendere ad Ascoli. “Non solo per noi, veniva messo a disposizione di un po’ tutta la comunità: al Monte di Rosara il somaro non ce l’avié nessuno perché c’aveva gli animali da lavoro (…) il somaro non j’enteressava chi c’aveva i mezzi, siccome il terreno permetteva di andare con un carro o con una traglia, quella che scivola sul terreno (…) Quindi il somaro si prestava, veniva quello su “oh, me presti il somaro per anda’ a macinare il grano?” Il mulino stava sotto a Villafranca, oppure anche a Porta Cartara dove ci stava i mulini, ma più che altro nel periodo critico, quando dovevi paga’ il dazio ecc., su evadevi tutto, andavi, non ci stava i posti di blocco le dogane non ci stava, quindi s’andava su, sennò dovevi paga’ pure la dogana; e quindi veniva giù, prendeva il somaro, andava a fa’ i servizi, poi in ricompensa pe’ pagamento veniva ad aiutare una giornata a seminare, una giornata se c’era bisogno di lavori particolari, c’era bisogno di manodopera allora prestava la manodopera (…) tu facevi veni’ su il falegname che rimetteva a posto la botte, poi una volta veniva il sarto, faceva il vestito, ‘na volta il calzolaio e così via …”. (E.T.)  

“Qualche volta ce montavi ma era birbo, non te faceva salire; se cominciava a torce a torce a torce alla fine te faceva casca’”. (L.A.T.)

Le storie sugli avvistamenti di serpenti sono frequentissimi nei racconti dei testimoni orali, che ricordano di averne incontrati di dimensioni spropositate e più volte rinvenuti i resti scheletrici all’interno dei blocchi di marmo delle cave sovrastanti. “Lì papà ha aperto una cava, alla caduta di un masso si è visto qualcosa che pendeva da quel masso rimasto sospeso (…) quando sono saliti su a vedere era tutto lo scheletro di un serpente che era passato con la testa ed evidentemente non poteva tornare indietro perché la mandibola del serpente ti permette di entrare ma non di uscire, se entra in un buco”. (E.T.)

Franca ricorda bene che quando era alla cava del papà la mamma Isolina tirò fuori “co’ lu picco de la faggë” da un buco nel travertino la testa ormai scheletrica di un serpente di notevoli dimensioni. (F.T.)  

Nell’ascolano gli incontri con i serpenti hanno generato una credenza diffusa che intravede un potere magnetico nello sguardo dei rettili, una sorta di fluido detto “afa” che irretisce la vittima e la priva della facoltà di reagire.

“Gli animali selvatici faceva parte della vita nostra, ‘cchiappavi i nidi, li allevavi”. (E.T.)  

Si dava la caccia alle volpi perché facevano danni ai pollai. “Le volpi se magnava tutte”. (L.A.T.)

“Dei lupi se ne parlava però i lupi mai visti”; Mimì ne ha sentito parlare dai racconti di paura volti a proteggere i bambini dai pericoli naturali, ma non ne ha mai incontrati nei boschi, solo serpenti, volpi e tassi. “’Na vodda a Coperso scese i lupi, ne ammazzò uno e dopo passava per la questua, quello che je volevi da’. ‘Nu lupe, era brutto davere eh, portava ‘na coda cuscì. Passava pure là a noi”. (L.A.T.)  

“Se faceva il giro dei contadini, e quelli chi te dava dieci uova chi te dava cinque chili de grano …”. (E.T.)

Oggi la zona è ripopolata dalla specie di lupo appenninico, ma anche dal cinghiale di reintroduzione e da caprioli. “Una volta veramente là era tutto pulito, tutto coltivato”. (E.T.)  

LE FESTE

La messa nelle domeniche normali la si seguiva nella chiesa di Rosara, mentre a Castel Trosino si andava per le celebrazioni importanti. Oltre ad essere Castel Trosino la parrocchia cui fa riferimento la chiesa di San Giorgio, c’era anche un condizionamento affettivo nei riguardi del paese natìo delle famiglie, e Rosara era vista come un punto comodo e vicino al convento in cui poter svolgere i servizi religiosi.

“La sera della Vigilia si faceva la cena ognuno a casa nostra; finito a mangia’ si chiamava, allora andiamo a prende il caffè o il punch su’ Mattia, e puó dope veniva giù ‘casa (…) partivamo verso le undici, una squadra tutta a la messa a Castel Trosino. Ci stava le neve spesse volte, però ci stava la strada e andavamo lo stesso. Dopo dove è uscita mamma giù era tutti cugini miei (a Casette) e ci fermavamo lì, ci aspettava, però non se mangiava più perché dovevamo fa’ la comunione. Andavamo a Castel Trosino, sentivamo la messa, poi tornavamo su e c’andavamo a dormi’. E gli uomini rimaneva tutti giù a Zi’ Cadorna (personaggio noto di Casette e zio della testimone) a gioca’ a tombola. Sia mio fratello sia che mio padre riportava sempre qualcosa: Emidio vinse il piccione, papà i polli. Quando noi la mattina de Natale ci alzavamo, loro si metteva a dormi’”. (L.A.T.)

“Quanne che era inverno e nevecava, mia nonna faceva una cesta grandissima, un cestone si diceva, là dentro faceva le fiche secche (…) ci stava ‘sto cesto pieno de carrëcijjië (carrëcillë: qualità di fico, di piccole dimensioni, essiccato al sole o al forno), li chiamavame, poi ci stava una cesta di mandorle e ‘na cesta, ma cesti grandi, di noci e dopo scendevamo tutti sotto, perché là dove stava la cucina dei frati il fuoco era grande pe’ ‘na metà di casa (…) e giù sotto metteva le querce intere; i fusti di quercia li metteva là ardeva per otto giorni”. (L.A.T.)

“Dove sta Peppe lu Bbri, ce stava una donna che si chiamava Menica. Quella tutti i lunedì di Pasqua veniva a San Giorgio e portava la pizza col formaggio, se metteva a sede’ vicino alla fontana e poi chiamava tutti; andavamo giù fuori chi portava il vino, chi portava le gazzose se mettieva dentro a ‘sta grotta”. (L.A.T.)  

Affresco raffigurante San Giorgio, foto di Narciso Galiè e Gabriele Vecchioni

Gabrielli scriveva nel 1947: “Negli antichi “Statuti” municipali, San Giorgio viene posto immediatamente dopo il patriarca San francesco, tra i santi, la cui festa doveva celebrarsi con grande solennità non solo dagli abitanti di Ascoli, ma anche da tutto il contado (…) Fu sempre grande la devozione degli ascolani per l’eroico cavaliere di Cristo, e molti furono i privilegi concessi dalla nostra comunità a favore dei pochi religiosi chiusi nell’alpestre romitorio”. (Gabrielli; 1947)

Ad Aprile si apriva un ciclo di celebrazioni festive, importante sia per gli abitanti del convento ma forse ancora di più per gli abitanti delle località limitrofe. Il 23 aprile si celebrava la festa di San Giorgio e nella chiesa interna veniva officiata la messa. La giornata richiamava gente da ogni località; arrivavano da Castel Trosino, Rosara, Ascoli, Arquata, dall’Abruzzo ed anche dal Fermano. “Su cominciava il 23 aprile con la festa di San Giorgio. Poi il primo maggio e tutte le domeniche di maggio (…) era festa. La terza domenica era il clou. Perché Ascoli a primavera era lo sfogo aperto. San Marco ancora non esisteva … E lì c’era la custodia delle reliquie di San Giorgio, c’era una nicchia (…) e vedi lì tutto smurato: quello non era perché il terremoto ha smurato, chell’era perché la gente andava lì con un pezzettino de ferro, raccoglieva il calcinaccio e se lo riportava a casa, ci faceva i brevetti, perché se diceva che quello era il brevetto contro i dolori di testa perché San Giorgio è il protettore del mal di testa”. (E.T.)  

Il contenitore in legno era protetto da una grata in ferro; su questa i fedeli usavano lasciare pettinini e forcine per i capelli, come ex voto per un forte mal di testa passato o come offerta per una guarigione. “Su questo cancelletto che stava in protezione della reliquia, forcine, pettinini di tutte le misure, di tutte le fantasie, la gente andava lì e lasciava”. (E.T.)

“Nei giorni di festa le dame vi si accalcano per infilarvi le forcinelle, invocando la guarigione dal mal di capo. Molti pellegrini poi scrostano il muro adiacente, e col calcinaccio fanno tante cartine che sciolgono poi nell’acqua per lo stesso scopo”. (Gabrielli; 1947)

Il vino prodotto dalle famiglie di San Giorgio veniva venduto ai turisti nelle domeniche di Maggio. “Su veniva il pesce a vendere, i pesciaioli tre giorni prima veniva su, preparava il coso, poi veniva con le cassette di pesce coi muli che portava su e veniva cotto il pesce, ma era un via vai continuo (…) I vari gruppi che venivano su si collocavano dentro al bosco, ogni tanto trovava ‘na piazzola, quaccuno se piazzava de qua qualcuno di là e poi si richiamavano, sentivi un vocìo da non finire e alla sera andava in baldoria, cominciava il gioco della morra, e poi lo sfottò, botte… cominciava a beve un pochettino, s’ubriacava, botte da orbi”. (E.T.)  

Balena interpreta le ‘maggiolate’ degli ascolani a San Giorgio come l’eredità di qualche festività di stampo pagano, che richiama certi rituali romani interamente caratterizzati dall’adozione della natura ‘dea‐bona’. “Gli ascolani vi si recavano in massa nella tradizionale scampagnata della seconda domenica dopo Pasqua o del 23 aprile ed era consuetudine raccogliere nel folto (allora!) bosco i ciclamini dal profumo aspro e penetrante che i giovani offrivano alle ragazze (…) La gente di epoca romana, invece, teneva in grande considerazione la località allora tutta boscosa, suggestiva e ‘magica’ proprio per la presenza di quelle acque, che tanto credeva salutari (…) Ed ai primi tepori della primavera si recava in massa a festeggiarle, sguazzandoci e lavandosi per tenere lontane o guarire le malattie della pelle, non senza ‘sacrifici’, libagioni, mangiate, canti e balli”. (Balena; 1984)

Le feste popolari a San Giorgio andarono scemando negli anni ’50, quando la zona di San Marco e San Giacomo iniziò ad attrarre più turisti con i servizi e con il grande ed assolato pianoro più comodo del piccolo spazio pianeggiante antistante il convento. “Io me ricordo poco de quesse, me ricordo solamente quando ce stava i comunisti che vinsero, dopo la guerra, e si fece a botte su; era di là lu Lago uno, quello poveraccio dopo se morì (…) quelli che vendeva il pesce, me lo ricordo ce ne stava tre quattro (…) A maggio cinque domeniche su era sempre pieno, intorno casa era sempre pulito perché era sempre pieno de quelli! I balli come all’Ascenzione, se ballava dapertutto”. (L.A.T.) 

“Tutte le domeniche di maggio la gente si reca al santuario, e durante le sacre funzioni esso è talmente stipato da non trovarsi un posto vuoto (…) Si giunge ad una spaziosa loggia, anch’essa di stile romanico, tutta in saldo e ben lavorato travertino. Quivi la folla si addensa numerosa, per assistere alle danze rusticane, che si snodano non più accompagnate dal tradizionale terzetto d’archi, ormai scomparso, ma al suono dell’antipatico stridulo organetto. Fuori, sul largo della chiesa, la variopinta folla s’agita, s’urta in un tumulto di sfrenata allegria. I venditori ambulanti di commestibili, di vini, di birra e di gassosa, vengono addirittura assediati, perché ognuno ha bisogno di ristoro, solleticato dalla fresca aria montanina. Intanto il pesce frigge nelle grosse padelle. Un denso nembo di fumo s’innalza verso l’azzurro. Molti si affrettano a comprare il più scelto, indi, di corsa, salgono i brevi sentieri per raggiungere gli amici e i familiari che aspettano assisi all’ombra delle annose querce del bosco. Parecchi mangiano nelle stanze superiori dell’ex convento, ospitati dalle famiglie proprietarie. S’ode in basso l’allegro vociare dei gitanti, seduti a tavola, mentre nei locali sottostanti, ridotti a stalla, mugghiano i buoi e belano incessantemente le pecore, mostrando il muso attraverso le ampie fessure delle porte sgangherate. Intanto le campane suonano a distesa, tra un accordante strepito di bombe e mortaretti. E’ l’ora della solenne processione, che si svolge lungo le difficili strade, con pittoresco effetto di luci e colori”. (Gabrielli; 1947)

 


Statua lignea di San Giorgio che uccide il drago, apriva la tradizionale processione del 23 aprile

LE PAURE

“A me non piaceva su, mi faceva paura, ci stavano i fantasmi… qua ce se resente!”. (Filomena)  

All’interno della chiesa, sotto la pavimentazione, erano presenti le tombe di due frati ed una di proprietà di Giovannozzi, un possidente e benefattore di Rosara. Mimì racconta che nei primi anni ’30 “Mia nonna riportò la mandibola di un teschio, che l’aveva trovato lì dove stava il coro (…) il pavimento era di tavole, alza una tavola e sotto trova un teschio con la mandibola staccata; quella la prende la riporta, per curiosità, dentro casa, e la fece vede’ a mamma (…) e la mise lì sopra all’armadio da cucina (…) Mamma stava a dormire con ‘sta bambina su la camera e a un certo momento si sente un urlo, e poi si sente il tavolo della sala trascinare su e giù tante volte (…) Al mattino come si alza la prima cosa che fa, riprende ‘sta ganassa e la riporta giù dove nonna gli aveva detto che l’aveva presa”. (E. T.)

Lia Anna conosce bene la pantasma e riporta una testimonianza assolutamente fedele alla definizione della stessa e pienamente comparabile con altre testimonianze attinenti. 

“Quill’è succiesse a me, e mica ero ‘na frichina, è stato l’anno prima che è morto mio padre (…) alla sera a noi ce piaceva tanto le patate fritte, sia a me che a Franca, ce faceva i cesti de ‘ste patate. Io pensavo che era mangiate la prima sera, “oddio stanotte momenti m’affoghe” , m’era venuta la ‘pantasma’, je se diceva. La seconda sera ho sentito come quando camminava qualcuno là la cucina (…) oddio,e revenne un sussulto, “nen è che me revè la pantasma mo?” Infatti dopo due secondi io sento cuscì, che raschiava quaccosa sul muro, e a fianco ci stava il letto, e poi sentii il letto, faceva come se doveva trova’ qualcosa. Allora io volevo accende la luce, ci stava la cosa però dovevo allunga’ un po’ il braccio e c’avevo paura. Sentivo qualcosa che pare saliva su ‘ngima al letto, diciamo come ‘na gatta e poi me ‘ncominciò quaggiù piane piane piane piane e cascai: non je la facevo a respirà, non je la facevo a spostà una mano o anche a chiama’ Franca. Insomma, quasi un mese. Quasi tutte le notti. Può darsi ‘na notte no, può darsi la notte dopo me se rinfrancava de più, e insomma quando fu infine lo dissi. Lo raccontai su’ casa “a me cuscì e cuscì. Sende pure cammina’. Nen è da mo, è da tale giorno”, “allora fai ‘na cosa” me disse papà “stasera vai a dormire con tua madre e io dormo quaggiù dove dormi tu. Vediamo, se viene a te deve veni’ pure a me”. La notte niente. So’ stata un paio di notti a dermì co’ mamma e dico allora va be’, me ne rivado a dormi’ qua jó va’. A la notte precisa. Quand’è stato infine era quasi un mese e era il mese dei morti (…) alla fine non je la facié manco più a mangia’, perché io m’ero impaurita e più sempre ‘sto disturbo. “Tu vai all’inferno!” je dissi, “tu digghie cuscì” me dicié la gente, “ca vide come scappa”, e quille nen scappava pe’ niente. Sto un momento poi s’andò via, ma la notte dope arecominciò. Quand’era de novembre a Castel Trosino cominciava a senti’ la campana verso le quattr’e mezza, pe’ fa’ la messa a la matina alle cinque, cinque e mezza. Allora Franca s’era addormentata allora e sentii cuscì e puó dope sentii come ‘na gatta che camminava là dalla cucina, sentivi ‘tip tip tip tip’; e ji feci a Franca “oddio Fra’ appiccia!”, chella ‘ppicciò la luce (…) e c’avevamo l’orologio ‘ppiccato là di fronte a noi, allora ji feci: “meno male che è giorno, io nen je la facce più”. Come seme jite a ‘ppiccia’ la luce indovina che ora era: nen era manco mezzanotte. M’è fatte capire che aveva bisogno e a me mi venne in mente cuscì “oddio, quello è Zëppuccë”. Siccome io quande che so’ nata me lo ricordo appena un po’, ci stava mio nonno, c’aveva un fratello, era sposato ma non aveva avuto i figli, la moglie s’era morta ed era ‘rmasto solo. Papà gli voleva un bene da morire, allora je disse papà “oh zì, ma che sta a fa’ sole? Vienne su casa, vieni a San Giorgio”. Truoppe je disse de no eppuó quand’infine venne su. Come che è venuto su se comincio’ a ammala’. S’è ammalato, broncopolmonite e se morì. E io me lo ricordo dove dormivo io e Franca c’era morto ‘stu zio (…) E me venne in mente questo; allora quando parlavamo io e Franca papà ci ha sentito ed è venuto giù. Dopo s’alzò pure nonno. E dopo seme fatto la nottata in bianco; a la matina nonno s’è alzato, è venuto quaggiù e ha fatto dice li messe perché lui voleva qualcosa”. (L.A.T.)

La pantasma, conosciuta anche come pandàfega o pantàf’ca, è una sorta di incubo indotto dalla presenza di uno spirito che opprime il dormiente. Si manifesta di notte nel sonno, come una presenza che non permette di respirare e paralizza chi la subisce. Spesso si manifesta attraverso il rumore dei passi o nell’atto di salire sul letto della persona che ne percepisce il peso: “era come ‘na gatta”. Si trattava quasi sempre dell’anima di un defunto che non riusciva a riposare ed un rimedio efficace ad allontanarla era quello di recitarle delle orazioni, specie i requiem. (Polia; 2012) 

“Era di settembre e le sorelle di mio padre era ragazzette. Era i primi anni che stava a San Giorgio e su ce sta la fonte dove sta la Sentina; ci stava un’altra strada secondaria, je se dice la strada de ‘li ciuottë’ (…) e allora era festa a Porta Cartara e ha reconosciuto questi de San Giorgio e ji ha chiesto se je portava la legna, era jiti utti e tre, sia Mattia sia Michele sia nonno. Però dice “ce la dovete porta’ la matina de la festa sennò n’ge li ritroveme” (…) Chiggh’altri già era jiti via e cheste dovié recarica’ ancora lu somaro, e passava giù al Castellano puó risalié là a Porta Cartara. E tutt’un momento sentì ‘trintrintrintrintrin’ su pe’ la strada su sopra, come quande fosse passate cinquanta campanelle che sonava, e zia se ‘mpaurì: “oddio bà che è quello? Che è quello?”, “ma niente” je disse nonne “zitta, n’è niente”. E chella se ‘mpaurì “oddio come sona! Sentié come ‘na cosa de’ cavalli che camminava”. Nonne se vide muorte. Chiste a Porta Cartara è scaricate lu somare e puó se n’è rijite. Quand’è state là passava da Saccioni e uno che passava là je disse “tu lu sa, qua ci sta ‘na grotta che si chiama grotta d’lu Dindirindì, perché se sente sempre i campanelli” e dice era li sdreghe …”. (L.A.T.)

“Su’ Voccalo’, quille del monte di Rosara che c’aveva sette contadini, c’aveva i cavalli perché era ricchi (…) dice i cavalli questi la matina quando si alzava, specialmente il sabato matina, erano tutti sudati e era andate dentro casa, era andate là i cassetti della sala, j’e s’era pijiate tutti i tovaglioli e la matina ritrovò i cavalli che j’e aveva attaccato i piedi co’ i tovaglioli”. (L.A.T.)

MEDICINA POPOLARE

Anna Marozzi, Annetta “la Mora”, “era la mammina”, ossia la levatrice che si adoperava in tutta la zona circostante per far nascere i bambini “Infatti a Rosara e al Monte di Rosara la chiamava tutti commare”. (L.A.T.)  

Abilissima conoscitrice di erbe con cui creava medicamenti naturali, guariva le ferite e raddrizzava le distorsioni articolari. “Ce stava le pecore no? A volte je faceva cattive, quande nen je diceva come diceva essa je tirava quello che portava pe’ mano, je tirò ‘na fagge e je tagghiò ‘na gamba. Allora che fece nonna, je fece l’operazione essa: je mise la stecca e ‘sta pecora camminò meglio di prima. Levava l’invidia, faceva tutto. Faceva la chiarata, metteva apposto li braccia”. (L.A.T.)

La chiarata è un rimedio popolare alle distorsioni: si otteneva miscelando albume d’uovo (la chiara, da cui il nome) e fuliggine. Veniva poi stesa sull’arto fasciato e si aspettava qualche minuto che indurisse all’aria dando solidità al bendaggio e creando una sorta di gessatura che immobilizzava temporaneamente la parte lesionata.


San Giorgio e poco dietro Castel Trosino, sullo sfondo la Montagna dei Fiori

LA GUERRA  

Con l’armistizio dell’8 settembre del 1943, nel giro di poche settimane le guerriglie di resistenza si intensificarono sulle montagne intorno ad Ascoli e l’occupazione tedesca varcò le porte dell’antico convento silenzioso ed isolato. Anche se nei racconti dei testimoni le tempistiche sono confuse, si può ipotizzare che i tedeschi si siano stabiliti a San Giorgio intorno ai primi di Ottobre del ’43 e che la loro permanenza sia durata non più di una settimana. Sicuramente, come già accaduto in passato, la postazione del convento offriva dei vantaggi sia difensivi che di controllo verso la antistante Montagna dei Fiori. Proprio dai primi giorni di ottobre, inoltre, cominciò la più violenta repressione delle formazioni partigiane che aveva come campo di battaglia proprio le zone di San Marco e San Giacomo. 

Il giorno in cui la pattuglia tedesca si presentò a San Giorgio certo non perse tempo in convenevoli e si adoperò per organizzare un avamposto militare all’interno dell’abitazione. “Non è che c’ha chiesto “oh, possiamo anda’ a dormì sopra” no, le migliori camere l’ha prese loro. Dopo ci sta da dire pure un’altra cosa: siccome mio padre un po’ di giorni prima aveva ucciso un manzetto (…) e aveva raccolto un po’ di soldi e do’ li metteva, lì la camera, ci stava il comò. I soldi dentro al primo cassetto. Questi quando c’ha cacciato fuori era così, loro dormivano su, e mamma rimaneva meravigliata, dice “guarda un po’, avessero toccato una lira. Invece ci stava i vasi di marmellata che faceva mamma con la frutta locale, pesche, fichi, di tutto di più (…) ci stava ‘sti vasi da cinque chili belli grossi, quelli invece con la baionetta prendeva il coso e mangiava, o con le mani ci andava”. (E.T.)

“Fece cucina’ alla moglie di Mattia, che l’aiutava ci stava pure gli uomini, ha messo tutti a lavora’, ha messo a bolli’ l’acqua per i polli, poi chi spezzava chi metteva a cuoce; eh ne ammazzò parecchi!”. (L.A.T.)

Appena insediati i tedeschi iniziano ad impartire ordini agli abitanti, che videro sacrificati non pochi capi di allevamento per il sostentamento delle truppe occupanti. La prima sera fecero apparecchiare una lunga tavolata sotto agli archi a volta dell’ingresso, e Rosa cucinò della carne. Quando portò la pietanza al tavolo uno dei tedeschi cominciò ad indicare prima la donna poi il vassoio, ma non capendo cosa volesse dirle la donna non fece nulla. A quel punto qualcuno tradusse in italiano quello che il soldato aveva ordinato e disse alla donna, non contemplando nessuna possibilità di scelta, di assaggiare lei per prima il piatto cucinato a riprova che non fosse stato avvelenato.  

“L’azione dei patrioti a San Marco era molto più attiva, però il territorio veniva monitorato. Alla sera, quando usciva l’ispezione nel bosco (…) accendevano i bengala e illuminava a giorno tutta la vallata, e questi che gironzolavano, le pattuglie, e andava a perlustrare per vedere se c’erano dei movimenti un po’ sospetti”. (E.T.)

“Era a tempo che ci passavano i tedeschi veramente, e passavamo per il Monte di Rosara e ci stava una strada un po’ dritta prima di arriva’ a Coperso, e ci stava, non so se era i tedeschi, l’aereo che mitragliava eh. E allora ce stava un figlio de Mattia (…) due aerei ce stava, allora ci stava un contadino che ci diceva “correte, correte, mettetevi sotto agli alberi!”, corri corri corri e il somaro non te camminava. Ce siamo fermati lì sotto ma forse loro ce vide poi dopo non ce vide più perché ci stava grandi querce”. (L.A.T.)

Intanto, nel settembre del 1943, un giovane soldato inglese riusciva nella fuga da un campo di prigionia del Maceratese e, nascondendosi durante il giorno e camminando di notte su scoscesi sentieri di montagna, senza una meta precisa e con nessun punto di riferimento, raggiungeva le coste del Monte di Rosara. Il suo nome era Dennis Hutton‐Fox e segnò profondamente i ricordi degli abitanti dell’ex convento di San Giorgio. “Per noi è rimasto un’icona”. (E.T.) 


Dennis Hutton‐Fox

La figlia di Dennis, Margaret, ha raccolto l’avventurosa e spericolata esperienza del padre in Italia in un’intervista consultabile negli archivi online della BBC dedicati alle memorie dei soldati della Seconda Guerra mondiale. “Ricordo che vagavo su quelle montagne solitarie cantando “I wander alone… and there will I live and die”. Da Perugia ho camminato per circa 100 miglia a sud fino ad Ascoli Piceno. Poi sono arrivato ad un grande, vecchio monastero. Era in una zona tranquilla, senza case o altro in vista, quindi mi sono avvicinato, con cautela. Con mio grande stupore non era affatto un monastero ma era stato trasformato nella casa di un tale Mattia; ero arrivato a San Giorgio, un luogo che avrebbe assunto per me un grande significato”. (D.H.)

“Siccome Mattia Antonucci era stato in America e sapeva parlare inglese (…) dopo passò questo e voleva parlare a uno che lo capiva, e ci stava ‘stu Mattia, e quello je cominciò a parla’ inglese e quello non ce vedétte”. (L.A.T.)

“Mattia è stato amichevole con me. Era stato nella divisione italiana dell’esercito americano durante la Grande Guerra e parlava con una strana pronuncia l’inglese. Mi ha detto che c’erano molti tedeschi nella zona e mi ha nascosto in una grotta, dove i suoi famigliari mi portavano da mangiare, ma a me non era permesso salire in casa. Rimasi lì circa due settimane, poi, una notte ci fu un terribile terremoto”. (D.H)

“Venne ‘stu terremoto, allora siamo usciti tutti là fuori ‘sto piazzale (…) ‘na luna ce se vedié come a mezzogiorno (…) Il terremoto fu la sera, una sera così …”. (L.A.T.)

La scossa di cui parla il soldato non è riportata in nessun documento ufficiale degli enti addetti al rilevamento sismico, eppure è testimoniata anche da un’altra fonte e porterebbe a pensare che fosse una scossa premonitrice di quella più documentata della mattina del 3 ottobre 1943. In tale data i rilevamenti successivi non sono stati in grado di fornire delle stime esatte, data anche la particolarità degli eventi storici in corso, ma gli studiosi reputano la scossa di magnitudo 5.6, avvenuta la mattina del 3 ottobre alle ore 9:28 con epicentro tra Castignano e Offida. Meno di un mese dopo l’armistizio e nella fase più critica per i civili italiani, il terremoto contribuì ad amplificare la paura e la distruzione che già la guerra stava seminando. I tedeschi non furono immuni dal terrore primordiale indotto da un sisma, di notevole entità oltretutto. “Una violenta scossa di terremoto fa tremare la zona. I tedeschi per un po’ si arrestano. Credono sia saltata una santabarbara. Molti italiani ne approfittano per rompere l’accerchiamento e per dileguarsi fra la boscaglia. Poco dopo l’attacco riprende”. (Alessandrini; 2004)

“Il 3 ottobre si registrò una fortissima scossa tellurica nel momento in cui, sul colle San Marco, si lottava sulle opposte rive del Gran Caso (…) I tedeschi della Gestapo erano nella casa di Perini in via Lungocastellano verso le 9,30 e la stavano mettendo a soqquadro, quando il terremoto scosse le mura. Fuggirono impauriti forse perché, una volta tanto, non erano stati loro a fare tanto fracasso”. (Balena; ND)

“Ma dope la notte, pe’ paura, aveva preso tutte ‘sti materassi per tutte le camere, sia da noi sia da quell’addre, e li portava tutti su’ la casa di Antonucci e puó l’ha messi tutti per terra e su dormiva”. (L.A.T.)

Dopo la scossa notturna le famiglie si rifugiarono all’interno delle grotte nelle terre vicine al convento, ma furono sgomberati dai soldati tedeschi forse come atto di difesa verso i civili che si sarebbero potuti ritrovare nel raggio di azione dei bombardamenti in corso verso la Montagna dei Fiori.

“Dopo, quando venne ‘stu terremoto à la matina verso le dieci, allora stava tutti su’ le logge perché era ‘na bellezza su’ noi, quando stava su venne ‘stu terremoto e ci stava i tedeschi che c’aveva li bombe, era come i barattoli di pomodori di mezzo chilo, e da ‘na parte je ripendeva come ‘na catenina (…) e l’ha tirata proprio a questo sasso lì sotto. Allora lu rumore che era sparate, lu rumore de lu terremote ce camuffò pure ancora più gruosse”. (L.A.T.)

Il giorno in cui ci fu la scossa Isolina, la mamma di Lia Anna, era andata da uno zio di Caselle di Maltignano a comprare della soda. “Mamma quando venne il terremoto stava giù (…) mentre che stava a fa’ la pannella venne ‘sto terremoto (…) mamma ‘cchiappa ‘sta soda e revenne. Quand’è stata quassù all’Annunziata ci stava i tedeschi e non la volle fa’ passa’ (…) disse, “mo provo dalla parte di Castel Trosino”; quand’è stata a Porta Cartara i tedeschi n’addra vodda. Niente da fare, e allora che fece mamma, rischiò, perché prima l’acqua ci stava, ci stava la diga, nen pozza esse mai apriva l’acqua chissà do’ l’andava a pijà. Scese giù sotto a Porta Cartara puó prese pe’l Castellano, se fece tutto di corsa il Castellano. Quand’è stata lì al Lago risalì su la strada, ma allora non vedeva nessuno (…) le botteghe era chiuse, non vedevi un’anima (…) allora mamma prese là … quand’è ‘rrivata su ‘ngima incontra ‘sto ragazzo, ‘sto figlio di Mattia, Mario, tutto fasciato perché quello stava su dentro, e gli cascò una pietra, un calcinaccio. Quando arrivò su era pieno di tedeschi, non si sa quanti polli s’era magnati”. (L.A.T.)

Dopo il terremoto, una volta tornata Isolina, le ragazze e i bambini fuggirono dal convento, lasciando solo uomini ed anziani a gestire l’occupazione dei tedeschi che, oltre l’allerta per le imboscate partigiane sul versante del colle San Marco, ora vivevano anche con il timore di altre scosse di terremoto e si erano radunati a dormire tutti in un’unica stanza. A ‘le cambane’ (‘dietro le campane’, intendeva lo spazio a sud della torre campanaria del convento) era pieno di cannoni che puntavano sulla Montagna dei Fiori. In effetti la notte del 3 ottobre, mentre alcune truppe tedesche tendevano un’imboscata ai partigiani al Colle San Marco passando per Ripe di Civitella e scendendo dalla Montagna dei Fiori, altre accampate nei pressi dell’eremo “misero in linea anche i mortai da ‘88’ che tiravano a vista dalla zona di Rosara sull’accampamento dei patrioti”. (Balena; ND)  

“Invece là lu piazzale era pieno de tedeschi, sembrava la festa de Sandemiddie”. (L.A.T.)

A sinistra: mosaico raffigurante il terremoto del 3 ottobre 1943.  Cripta di Sant’Emidio, Duomo di Ascoli Piceno

“All’inizio ho pensato che fossero i tedeschi a lanciare bombe a mano a caso nelle caverne, cosa che a volte facevano. Quando ho capito che si trattava di un terremoto e che quelli che sentivo erano i massi che, cadendo, rimbalzavano sul fianco della montagna, sono scappato col timore di essere sepolto vivo e, dato che quel giorno non avevo ricevuto niente da mangiare e nessuno da San Giorgio era venuto alla grotta, me ne andai verso la casa. Sono entrato nell’edificio ma non l’ho riconosciuto a causa del sisma (e questa è stata solo la prima scossa, in realtà ce ne sono state altre due quella notte, una mentre ero là dentro ed una di buon mattino del giorno 3 ottobre 1943, proprio mentre mi portavano fuori). Ero nel buio più totale e ho vagato tentando di riconoscere i posti in cui ero già stato, ma tutto era cambiato e non riuscivo ad orientarmi. Il terremoto aveva scosso molto San Giorgio e i soffitti erano crollati, come anche era crollata la torre e la famiglia era sfollata. All’improvviso mentre ero lì ho sentito delle voci parlare in tedesco, così mi sono nascosto dietro la porta di una stanza. Capii poco dopo che una pattuglia di paracadutisti tedeschi occupava la stanza di fronte a quella in cui mi stavo nascondendo e che ero in trappola”. Dennis fu catturato da due sentinelle appostate all’ingresso del loggiato ed interrogato. “Mi trattennero lì tutta la notte e la mattina seguente schierarono tutta la famiglia di Mattia, insieme ai loro cugini, lungo il ciglio della strada fuori San Giorgio. I tedeschi accusavano la famiglia di avermi dato cibo ed ospitalità (…) Mattia e la sua famiglia avevano davvero paura che potessi confessare il fatto che mi avevano dato da mangiare perché sarebbero certamente stati fucilati”. (D.H.)  

Dennis fu portato via da San Giorgio e per qualche giorno rimase al carcere civile di Ascoli prima di essere deportato in un campo di prigionia tedesco in Toscana. Un paio di settimane dopo l’arrivo riuscì a fuggire e, come per le altre due volte, si ritrovò a vagare senza mappe e senza bussole attraversando l’Appennino verso sud. “Questa è una storia che per noi ha avuto un significato non indifferente, anche perché il ritorno successivo dell’inglese su è diventato quasi un miracolo quello di ritrovarsi qua”. (E.T.)

“Non sapevo nemmeno dove fossi ma un giorno vidi un monastero solitario e proprio non riuscii a crederci: ero di nuovo a San Giorgio! E’ stato un vero miracolo”. Non passa infatti inosservata la coincidenza degli eventi; San Giorgio, martire guerriero, è anche il santo patrono d’Inghilterra! Quando Dennis riapparse come un miraggio alle porte del convento le famiglie si riunirono per decidere le sorti del soldato inglese. “Avevano realizzato l’alto rischio a cui avevo esposto anche loro quando fui catturato ed avevano tirato un sospiro di sollievo nel vedermi andare via senza ripercussioni su di loro. Ed ora, vedermi di nuovo sulla soglia di casa solo poche settimane dopo è stato davvero terribile e si sono riservati il diritto di scegliere se mandarmi via. Ma, per qualche motivo, alla fine decisero di aiutarmi (…) Mi portarono in una delle grotte, una grotta davvero bella, e continuarono a portarmi il cibo. Era novembre ormai e il clima stava diventando molto più rigido. Dovevo trovare un posto dove nascondermi per l’inverno, non potevo continuare a vagare così per le montagne (…) Ho poi scoperto che avevo a disposizione tre o quattro grotte e mi spostavo da l’una all’altra; le figlie (Maria, Ada, Jolanda e Angela) mi portavano da mangiare. Angela era la più giovane. Avrà avuto circa sei anni, suppongo, e lei e Mario, il più piccolo, venivano più spesso degli altri. Quindi, in quel periodo, mi sono affezionato moltissimo ad Angela e Mario”. (D.H.)

“Lui non è che viveva sempre dentro alla grotta. Quando era tempo buono c’aveva una tenda e si spostava un po’ più in là vicino al bosco, quando invece era notte e il tempo freddo andava dentro la grotta”. (E.T.)

“Il periodo che ci stava Dennis ero io e Lia Anna, lei si ricorda che Dennis preferiva l’uovo fatto al tegamino. Non è che affidava a me a sei anni di porta’ … però, dove andava quelli andavo io, se andava insieme, difficile che andava uno solo magari avventurarsi con dieci dodici pecore, quello che era, quindi s’andava insieme a Lia Anna che era un po’ più grande e con la scusa di anda’ a para’ le pecore gli si lasciava quello che gli si poteva lascia’. Però non era sistematico, questo nei giorni che ci stava più movimento, ci stava più possibilità di essere individuato. Altri giorni magari anche lui si avvicinava, sempre molto circospetto però s’avvicinava al casolare, entrava pure dentro nei momenti di calma ”. (E.T.)

 Veduta su Castel Trosino da San Giorgio, foto di Mauro Orsini

“La mia grotta preferita aveva un ottimo punto di osservazione: guardando dall’altra parte della valle, sul versante opposto della collina, potevo vedere il paese di Castel Trosino. I tedeschi ne avevano preso possesso e ne avevano fatto il loro quartier generale. Io ero solito sedermi su una roccia nascosta nella mia caverna ad osservare il loro continuo andirivieni. Stava diventando più freddo ed ero molto esposto, così costruii un muretto a secco di fronte alla mia grotta lasciando solo un’entrata da un lato ed un punto di osservazione dall’altro, rendendo il tutto molto accogliente (…) Poi venne la neve e nevicò e nevicò. C’erano sei o sette piedi di neve in alcuni punti. La mia grotta era molto asciutta ma chiunque venisse a trovarmi lasciava grandi impronte ed era diventato piuttosto rischioso; allora Mattia decise che era più sicuro per me stare a casa con loro a San Giorgio per il momento, dato che era estremamente improbabile che una pattuglia tedesca salisse sulla montagna in quelle condizioni. La neve durò fino a dopo il Natale del 1943 e trascorsi dei momenti meravigliosi con questa famiglia a San Giorgio, senza correre nessun pericolo. E’ stato allora che li ho conosciuti davvero bene: Maria mi ha insegnato ad usare la macchina da cucire e con lei facevo i vestiti e cambiavo i letti o aiutavo Ada e Jolanda nelle faccende domestiche e nella preparazione delle pietanze. Ci sedevamo tutti e discutevamo intorno al fuoco perché ormai parlavo abbastanza bene l’italiano. E’ stato bello frequentare di nuovo belle donne ma, ovviamente, tra me e le figlie non è mai successo nulla perché non avrei mai potuto tradire la fiducia di Mattia. Questa famiglia aveva rischiato tutto per salvarmi la vita, dovevo loro così tanto!”. (D.H.)

Quando il tempo migliorò Dennis ripartì da San Giorgio con l’intenzione di raggiungere le linee inglesi ma trovò non poche difficoltà negli spostamenti in un territorio ancora fitto della presenza di truppe tedesche quindi, ancora una volta, ritornò indietro, questa volta con l’intenzione di ritrovare il convento dove avrebbe atteso l’arrivo del suo esercito. “Da dove mi nascondevo nella mia grotta sopra San Giorgio potevo vedere, appena oltre la valle, a Castel Trosino, il quartier generale tedesco che improvvisamente apparve vuoto! I tedeschi si erano sorprendentemente dissolti. I loro camion non andavano più su e giù per la rampa e soprattutto la sentinella tedesca sul campanile della chiesa se ne era andata. Era tempo di andare. E’ stato molto triste dover lasciare questi cari amici italiani dopo tutto quello che avevano fatto per me (…) Quindi ora l’Italia era libera e potevo fare l’autostop fino a Roma. Era la metà di luglio del 1944 e quando arrivai era buio e Roma sembrava devastata (…) Alla fine ritrovai il mio reggimento ed entrai nell’accampamento esclamando “ce l’ho fatta!”, ma nessuno era interessato: rimasi basito! (…) Ho passato due anni terribili di privazioni eppure nessuno sembrava interessato a chiedermi chi fossi, da dove venissi o altro (…) Pensai che questo fosse un ritorno a casa orribile, allora uscii dal campo e tornai di nuovo a San Giorgio! Avevo indossato i miei nuovi stivali militari e li regalai a Mattia in cambio del suo vecchio paio logoro. Rimasi per due o tre giorni prima di salutarlo per l’ultima volta e tornare in autostop a Roma”. (D.H.)


Da sinistra: Domenico Dominici insegnante di inglese, Dennis Hutton‐Fox e Mattia Antonucci

“Chiaramente co’ Mattia c’aveva pure ‘sto rapporto di lingua, del parlare; lui con noi bambini, ecco gli fai un sorriso, ‘na carezza ma un discorso non lo poteva mantenere con nessuno. Dopo lui apprendeva l’italiano da Mattia e Mattia apprendeva l’inglese; lui con l’americano si avvicinava un pochettino e lui ci teneva a parlare con l’inglese perché lui voleva imparare la lingua, ce teneva,  lui ci teneva a parlare l’italiano”. (E.T.)

I due uomini non si incontrarono più. Dennis Hutton‐Fox tornò a San Giorgio nel 1991 con le figlie, in quell’occasione visitò la grotta che lo ha rifugiato con Mario, il più giovane dei figli di Mattia ed ha salutato il suo vecchio amico sepolto nel cimitero di Castel Trosino. Il 21 aprile 2024 sono tornate in Italia le figlie di Dennis ed alcuni nipoti per un incontro organizzato dai discendenti di Emidio Tassi, ed hanno dialogato con Emidio “Mimì” e Lia Anna, due dei bambini incaricati di raggiungere la grotta dell’inglese. Insieme hanno raggiunto alcune delle grotte in cui veniva trasferito il giovane soldato durante il tempo di permanenza nell’ascolano, rivivendo l’intenso rapporto di gratitudine e complicità che ha unito due famiglie unite da un incontro casuale e molto, molto fortunato.  

Quando arrivarono nuovi ordini e i tedeschi si accinsero a lasciare San Giorgio per spostarsi altrove, lasciarono la loro firma. “Dopo quand’è la matina che loro è andati via, mbè questi che fece i tedeschi, prese il miele e la marmellata aperto, c’avevamo un tavolino lungo da qua a là, era messo tutto lì sopra (…) appena che ha mangiato poi che faceva, fumava e le sigarette, le cicche, le metteva in mezzo al miele o dentro alla marmellata, per dispetto”. (L.A.T.)

C’era un ragazzo di Rosara, Domenico Dominici insegnante di inglese, che sentì una conversazione dei soldati tedeschi, ed avendo dimestichezza con le lingue straniere comprese che alcuni mostravano l’intenzione di passare la notte in compagnia delle ragazze di San Giorgio. “Belle ragazze, era belle pe’ dave’, era bellissime!”. (L.A.T.)  

Isolina e Rosa, messe in allarme, decisero di spostare tutte le giovani e i bambini a Mozzano da una parente; “Allora seme passate su’ le logge, nen seme passate là il portone, e puó dope dritta là seme jite fino a Giammarì (di fronte Cerquito), seme passate terra terra e seme riscesi a Mozzano (…) siamo scesi giù c’avevano un pagliare ma grosso, allora co’ la paglia abbiamo fatto tutto un giaciglio per terra. Siamo andati là ventuno persone eravamo. Ce stava mamma, ce stava la moglie de Mattia, ce stava Ada, Jolanda e la commare Maria (…) allora mamma, una de quegli altri Tassi de Michele e Rosa, dice “faceme ‘na cosa: siamo tutte e tre belle toste, riandiamo a vede’ che ci sta là”. Quand’è state ‘ngima al monte, là vicino a Coperso, una squadra di dieci quindici apparecchi (aeroplani), allora sentiva ‘u rumore “oddio che sarà?”, tutti bassi andava; e Rosa la moglie di Mattia era più anziana si cominciò a butta’ per terra, diceva “oddio, so’ abbandonato li fiji miei, non li rivedo più!”. Chi s’è misse sotto ‘na pianta e gridava gridava, e ci stava una de su al Monte de Rosara che la vedette coscì disperata e chella je java incontre (…) come andò a guarda’ “oddio!” je dicié “che gridéte?” je decié quella: “Non gridate che mo ‘rriva l’americani. La guerra è finita!”. (L.A.T.)

PRESENTE E FUTURO

Oggi San Giorgio si classifica a pieno diritto come rudere, vittima innocente di tempi che corrono rapidi e che stabiliscono continuamente nuove priorità. “Quisse quanne parla de San Giorgio j’esce la favèlla”, dice Filomena interrompendo il racconto di Mimì. Anche se magari non si è fatto abbastanza per salvare il convento, quelle persone che ci hanno abitato ne conservano ancora il dolce ricordo e si emozionano nel rivivere gli episodi accaduti su quella collina, sospesi tra acqua e aria e scolpiti sulla solida roccia, in un profondissimo silenzio che oggi sarebbe giusto rispettare e proteggere finché dell’eremo solitario non resterà che il favoloso ricordo.

Incontro delle famiglie Tassi, Antonucci e Hutton‐Fox all’eremo di San Giorgio a Rosara il 21 aprile 2024

Bibliografia:
Alesi A., “Da Ascoli al Monte di Rosara”, FastEdit, Ascoli Piceno, 2010
Alessandrini T., “Memorie sulla lotta partigiana”, Ascoli Piceno, 2004
Amadio G., “Toponomastica marchigiana”, Tipografia Sisto V, Montalto delle Marche, 1952
Balena S., “Bandenkrieg nel Piceno”, Ascoli Piceno, ND
Balena S., “Folklore Piceno”, Edit, Ascoli Piceno, 1984
Brandozzi I., “Dizionario dialettale di Ascoli Piceno e territori limitrofi”, Grafiche Cesari, Ascoli Piceno, 1983
Carfagna B., “Rocche e castelli dell’Ascolano”, La Sfinge, Ascoli Piceno, 1996
Gabrielli R., “Feste tradizionali ascolane a San Giorgio”, in “Le nostre regioni”, Ascoli Piceno, Aprile 1947, Anno III N.4
Galiè N., Vecchioni G., “Castel Trosino”, Uplea, Ascoli Piceno, 2014
Polia M., “L’aratro e la barca” Vol. II, Lìbrati, Ascoli Piceno, 2012
Sitografia:
www.bbc.co.uk/history/ww2peopleswar
www.casteltrosino.it/storia
Testimoni orali:
(L.A.T.) Lia Anna Tassi, 91 anni
(E.T.) Emidio Tassi, 87 anni
(F.T.) Franca Tassi, 78 anni
Immagini:
www.iluoghidelsilenzio.it (foto 5)
www.cronachepicene.it (foto 8)
Foto aeree di Diego Giulietti
Fotografie di proprietà delle famiglie Tassi, Antonucci e Hutton‐Fox

Ringrazio sentitamente tutti i famigliari delle persone coinvolte per il loro supporto nelle interviste, le famiglie Tassi e Antonucci per il coinvolgimento nell’incontro con la famiglia Hutton‐Fox e per la disponibilità all’utilizzo di foto e documenti personali, ma soprattutto per la fiducia accordatami nella trascrizione delle memorie di San Giorgio.

Virginia Gidiucci

Virginia Gidiucci nasce nel 1989 a San Benedetto del Tronto dove vive tuttora. Diplomata in Scenografia all'Accademia di belle arti di Urbino, lavora ad Ascoli Piceno come costumista per la Compagnia dei Folli. Grazie alla sua passione per la montagna...
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