Ottobre: una storia di mare e monti

Scritto il 20 Ottobre 2021 da Virginia Gidiucci

C'è una ricorrenza che cade in questo mese, ormai persa nel tempo e nella storia, di cui oggi in pochi ne rammendano le origini, e che unisce concettualmente due centri urbani del Piceno, uno agli antipodi dell'altro: San Benedetto del Tronto e Spelonga. Ogni anno, la prima domenica di Ottobre, la città di San Benedetto e la piccola frazione di Arquata celebrano la Madonna della Vittoria (o del Rosario) in ricordo della vittoriosa battaglia combattuta tra la flotta cristiana e quella islamica nelle acque di Lepanto il 7 Ottobre 1571 alla quale, secondo la tradizione, entrambe parteciparono valorosamente. Il culto a Maria Ausiliatrice ed il ricordo del sacrificio dei marinai arruolati nella flotta cristiana non sembra più essere perpetrato dai cittadini sambenedettesi. Sicuramente l'ardimento dei pescatori dell'Adriatico nel Cinquecento doveva essere molto forte, come forte pure era diventato quel sentimento di diffidenza verso l'Islam, alimentato dalle numerose incursioni turche ai danni dell'economia locale (le ultime delle quali datate ad inizio Ottocento). Oggi la festa è meglio nota con il nome di “Madonna del Rosario, a ricordo del fatto che, per impetrare la protezione divina sulla flotta cristiana a Lepanto, tutti gli ordini religiosi avevano indetto continue preghiere tra le quali il rosario svolgeva una parte importante e, alla vigilia dello scontro, per volontà del Papa, ai combattenti era stata donata una corona del rosario”. (Polia, 2012)

Per tradizione, come accadeva a Natale ed a Pasqua, il giorno della festa della Madonna della Vittoria veniva distribuita la paga ai pescatori i quali, approfittando di un po' di denaro liquido, preparavano per celebrare le prime comunioni e le cresime. A testimonianza di questa usanza, oggi così sradicata da non essere neppure vagamente ricordata, e del fatto che del culto mariano legato alla vittoria di Lepanto non vi sia più memoria, le parole di un'anziana signora di San Benedetto del Tronto discutendone con una compaesana:

“Che è 'sta Madonna de la Vittoria?” e l'altra risponde: “ Uh, i marinare era cuscì: (era) a Ottobre, quando si faceva la prima comunione. Allora non si faceva a Marzo, si faceva la prima domenica di Ottobre. Tu non te recurde? ... Io me lo ricordo bè! Solo, il motivo non lo so, però si faceva la prima comunione la Madonna de la Vittoria, la prima domenica di Ottobre. Ma so 'ste parole sole”. (Polia, 2012)

A differenza della città costiera che, forse, ha messo in soffitta quel passato in cui si festeggiava in omaggio al valore di ogni pescatore partito alla volta dell'Oriente molti secoli addietro, a Spelonga continua ad ardere il ricordo di quei pastori, contadini, boscaioli, che partirono imbarcati su un mare mai stato loro e verso luoghi stranieri e sconosciuti, dai quali in tanti non sarebbero mai più tornati; ed anzi, festeggiare questa ricorrenza inorgoglisce nell'intimo gli spelongani, unisce e rafforza i legami sociali e l'identità di un intero paese.


Fino ad ora non sono stati rinvenuti documenti che accertino la partecipazione degli spelongani alla battaglia, ma la tradizione, fortemente sentita e celebrata dagli abitanti di questa piccola frazione incastonata tra i monti Sibillini e quelli della Laga, vuole che a Lepanto ci fosse un manipolo di un centinaio di uomini circa, i quali si impossessarono di un importante cimelio che riportarono in patria come testimonianza della vittoriosa partecipazione. Nonostante la mancanza di atti ufficiali che confermerebbero questo avvenimento, si sconsiglia fortemente di metterlo in dubbio di fronte ad uno spelongano; il cimelio che mantiene salda la fede dei paesani sulla loro storia è una bandiera conservata nella chiesa parrocchiale di Sant'Agata, un drappo di tessuto color rosso, sbiadito e lacero, con sopra cucite tre mezzelune ed una stella ad otto punte in tessuto giallo, che si ritiene, appunto, proveniente proprio dalla battaglia del 1571.

Nel 2003, durante il “1° Convegno Marche e Islam, la battaglia di Lepanto” tenutosi a Porto Recanati, Gabriele Cavezzi, sulla base di documenti dell'Archivio di Stato di Ascoli Piceno, elabora una interessante ipotesi sulla partecipazione degli spelongani a Lepanto. Egli afferma, infatti, che la seconda metà del Cinquecento è un periodo “quanto mai drammatico per la carestia che infuria tra le popolazioni dell'Appennino e lo Stato della Chiesa deve intervenire per autorizzare movimenti di grano in quella direzione, con partenze dai porti del fermano (...)”. In pratica veniva autorizzato il trasporto di modeste quantità di grano dalle zone costiere fino ad Arquata senza dazi ed imposte a condizione di non abusare di questo privilegio, sia contenendo la quantità di grano trasportato che evitandone il commercio con Norcia. Proprio secondo questa ricostruzione degli eventi, la partecipazione degli spelongani alla battaglia di Lepanto troverebbe spiegazione nella frequentazione di queste genti dei porti della vicina costa per scambi commerciali; pertanto il loro reclutamento potrebbe essere avvenuto direttamente nelle zone portuali. (Nanni, 2007)

Questo fortissimo sentimento che da svariate decine di anni vibra in petto agli uomini di Spelonga non poteva, però, rimanere imprigionato in una festività limitata nel tempo, ed il trascorrere degli anni ha alimentato la tradizione come benzina sul fuoco, portando la rievocazione della vittoria di Lepanto ad una festa unica nel suo genere, estrema in tutte le sue sfaccettature e di un impatto travolgente sulla vita moderna, come un uovo che, maternamente covato per tre anni, finisce con l'esplodere all'esterno tutto quel sentimento di eroica liberazione degli spelongani che altro non potevano fare se non titolare questo evento come “Festa Bella”.

La manifestazione, che si svolge, appunto, ogni tre anni durante tutto il mese di Agosto, è partecipata da tutti i paesani, seppur con funzioni ed utilità diverse; all'inizio dell'estate un gruppo di esperti boscaioli si reca nel bosco del Farneto risalendo il monte Cività, sui monti della Laga, per scegliere e poi tagliare un grosso albero, alto intorno ai 25-30 metri, che diventerà l'albero maestro della nave una volta arrivato nella piazza del paese. In un articolo titolato “Corrispondenze – una tradizionale festa a Spelonga” apparso sul giornale provinciale “Vita Picena” il 5 Settembre 1936 e firmato da tale C. Giuseppe, l'autore sottolinea questo gesto emblematico asserendo che “di tale lunghezza una trave si potrebbe prendere anche nei boschi più vicini all'abitato: ma si preferisce andare lontano, molto lontano [una volta, presumibilmente, ci si recava al bosco di Maltese per il taglio] per dare all'opera un senso di più alto significato, per dimostrare, quasi inconsciamente, di che cosa è capace l'anima popolare, la quale, sempre ed ovunque sa raggiunger il massimo dell'ingenuità e dell'ardore”.

Dopo il taglio, l'albero viene ripulito dai rami, squadrato alla base e preparato per il trasporto. Nei primi di Agosto, di mercoledì, un centinaio di uomini di ogni età lascia il paese per recarsi al bosco del Farneto; questo è il momento che segna l'inizio della Festa Bella. A mezzogiorno in punto, dopo un lungo suono di campane che chiama a raccolta in piazza tutto il paese, la popolazione saluta coloro che stanno per partire e le donne consegnano le vivande preparate appositamente per l'occasione agli uomini che saranno impegnati su quelle montagne per i tre giorni successivi.


Giunti poi alla macchia, quindi all'albero prescelto, si organizzano le manovre per il trasporto: tutti i presenti, guidati da un Caposquadra, si dispongono a coppie lungo i due lati del fusto; ogni coppia fissa in profondità, sulla linea dorsale del tronco, un elemento metallico detto “crucche” [in italiano “crocco”, uncino di ferro; era un attrezzo indispensabile nel passato, usato dai boscaioli per il trasporto dei tronchi] inserito in un anello di ferro ove si infila una corda molto corta a sua volta legata ad un paletto di legno (le “stanghette”) posto trasversalmente all'asse dell'albero.

“E' notte alta quando esso, a guisa di serpe, incomincia a muoversi. I muscoli si tendono, i piedi si puntano con vigorosa tenacia... ad intervalli regolarissimi, nel profondo silenzio di ogni voce, risuona il grido di “O forza!” del Caposquadra. In certi punti è impossibile procedere in modo usuale. Sono pendii, sono paurosi scoscendimenti in cui è giocoforza aggrapparsi all'arida erba ed andare avanti di palmo in palmo con i ginocchi”. (Giuseppe, 1936)


Dopo tre giorni, la domenica successiva, sempre a mezzogiorno e sempre con il lungo suono a distesa delle campane, l'albero entra trionfalmente a Spelonga. Nei giorni successivi tutto il paese partecipa alla preparazione della trave che, sempre a braccia e con il solo ausilio di funi (con funzione di tiranti) e scale (poste a sostegno e spinta) viene issato al centro della piazza, con una fedele copia della bandiera turca alla sua sommità. Tutto intorno all'albero maestro viene allestita, con legno e rami di abete, la sagoma di una galea che ricorderà, per tutto il periodo della festa fino alla prima domenica di Ottobre, lo storico evento.


Un'antica usanza a cui è possibile assistere in quelle festose giornate estive è la declamazione di poesie da parte di poeti popolari che improvvisano e recitano in pubblico le loro poesie in ottava rima (il cosiddetto “canto a braccio”); questa tradizione, scaturita dalla felice congiunzione della popolare creatività orale con i grandi poemi cavallereschi, si è praticamente conservata intatta fino ai giorni nostri. (Nanni, 2007)


Per quanto si possa riferirne al riguardo, il sentimento che anima gli uomini di Spelonga durante la Festa Bella non lo si può provare a descrivere e neppure paragonare a qualche concetto vagamente simile, bisognerebbe essere avvezzi ad una tale sensazione e, forse, neppure indossare una casacca rossa e trascinare il fusto d'albero giù per i ripidi pendii falascosi della Laga potrebbe simulare quel profondo ed intimo senso di appartenenza ai valori di un popolo che gli spelongani possiedono.

Per questo il mio desiderio è che la Festa Bella prendesse forma e colore nell'immaginazione del lettore attraverso le parole di chi a Spelonga ci è nato ed è cresciuto ripercorrendone all'indietro i sentieri della sua storia, e che ne parla come “qualcosa di più di una semplice festa... è anche sensazioni che non ti scivolano addosso troppo facilmente, e che invece ti rimangono appiccicate al cuore come spesso capita con i bei ricordi. E' un avvenimento che si attende per tre lunghi anni, parlandone nei bar quando il villaggio è sotto la spessa ed umida caligine invernale e le membra fremono sotto i maglioni di lana sognando di partecipare all'evento. Non fa nulla se poi alle prime “pettate” il fiatone s'ingrossa, le gambe e le braccia diventano molli e la vista si annebbia per la poca forza o per il troppo tracannare, quello che importa è che si è lì, tra altre cento casacche rosse, a spingere e tirare, alzando gli occhi agli spiragli di sole per scorgere tra le fronde della macchia i colori crudi dell'azzurro terso e argentato del cielo di Agosto. La Festa Bella è un bagno collettivo di folla, di sudore purificatore e di respiro che da affannato diventa regolare e caldo. E' una parata di forti boscaioli, di bambini vocianti, di spettatori che posseggono gli occhi umidi della vigoria passata, di ragazzi muscolosi, di smargiassate e smorfie concilianti, di merende pantagrueliche, ma soprattutto di loro: li Spilungà. La Festa Bella è stata concepita da persone semplici ed orgogliose della loro appartenenza, che hanno creduto e credono tuttora ad un modo di far festa senza tranelli, senza mezzucci, senza falsità o alchimie diverse dalla propria forza. La Festa Bella è stata ideata da gente che ha sognato una storia per Spelonga che oltrepassasse la nenia stanca dello scandire dei giorni. E' stata pensata per chi ancora avesse voglia di esserci, di cantare, di ritrovarsi, di valere nelle giornate agostane su e giù per i pendii della Laga, contentandosi anche di un piatto di pasta e di una bistecca come premio, perché tutti i soldi del mondo non varranno mai gli splendidi panorami che si godono da quassù, anche se poi la dolce illusione svanisce e, passata la villeggiatura, pochi anziani e qualche famiglia abitano le case di pietra arenaria dove d'inverno, con la neve alta, è facile rimanere isolati. Così le secolari chiese si fanno sempre più vuote, deserti i vicoli e le mulattiere, muti i pascoli e le vallate. Dai canaloni ed i pendii, lungo le gole e le forre boscose, si alza fino alle cime dei monti il vento, mentre il rintocco del campanile scandisce nel silenzio la vita di ogni giorno, come le stagioni e gli anni. In questa condizione di frontiera resiste un'umanità semplice e ricca di tradizioni, che ha trovato attraverso la Festa Bella la via per comprendere meglio sé stessa e non condannarsi all'estinzione”. (Camacci, 2016)

Bibliografia:

“L'aratro e la barca volume I – I mesi dell'anno: liturgia popolare ascolana”, M. Polia, edizioni Lìbrati, Ascoli Piceno, 2012
“Spelonga: storia, arte, tradizioni” a cura di D. Nanni, Associazione Culturale Festa Bella, Spelonga di Arquata del Tronto, Ascoli Piceno, 2007
Atti del Convegno “1° Convegno Marche e Islam, la battaglia di Lepanto”, Porto Recanati, 2003 “Corrispondenze – una tradizionale festa a Spelonga” art. contenuto in “Vita Picena”, a cura di C.
Giuseppe 5 Settembre 1936
“Pastalocchie”, V. Camacci, Spelonga di Arquata del Tronto, 2016

Sitografia:
www.spelonga.it
www.territoriostili.it

Fonti fotografiche:
immagini storiche prese dall'archivio del sito www.spelonga.it
immagini contest fotografico edizione 2019 dalla pagina www.facebook.com/FestaBellaSpelonga

Virginia Gidiucci

Virginia Gidiucci nasce nel 1989 a San Benedetto del Tronto dove vive tuttora. Diplomata in Scenografia all'Accademia di belle arti di Urbino, lavora ad Ascoli Piceno come costumista per la Compagnia dei Folli. Grazie alla sua passione per la montagna...
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