Settembre: l'óve jè fatte, le fécure pènne

Scritto il 22 Settembre 2021 da Virginia Gidiucci

“Settembre: l'uva è matura e i fichi pendono dai rami" (Liberati, 1997)

Come ricorda l’antico detto sambenedettese, Settembre era il mese in cui preferibilmente si svolgeva la vendemmia (vellegna). Il periodo esatto in cui si poteva svolgere il lavoro agricolo dipendeva, in realtà, dal momento in cui l'uva giungeva a maturazione, che quindi poteva variare a seconda dell'altitudine della coltivazione, della sua esposizione al sole e dalle condizioni climatiche dell'annata. La vellegna più che la raccolta dell'uva era quella del vino, tanto che il termine “vendemmiare" viene dal latino “vinum - demere", che significa appunto “raccogliere il vino". L'uva, infatti, in sé e per sé come semplice frutto da consumare a tavola, era poco o niente considerata. All'inizio dell'autunno, quando le prime brume cominciavano a sommergere le colline subito dopo il tramonto, i contadini armati di scale e ceste sciamavano tra le vigne e coglievano i succosi grappoli. Era un lavoro faticoso. Salire e scendere, portare in testa i cesti (le donne), scaricarli sui carri, portare questi sull'aia, riempire gli appositi recipienti, poi pigiare, torchiare, travasare… Inoltre era anche un lavoro “sporco" perché l'uva macchiava, appiccicava ed attirava mosche e soprattutto vespe.

La testimonianza raccolta da un anziano di Acquaviva Picena ci offre una descrizione realistica di quella che doveva essere la fatica del lavoro del vignaiolo che, a distanza di decine di anni, ancora ricorda così dettagliatamente. L'anziano signore racconta di quando, appena quindicenne, partecipava al lavoro comunitario, “nei tempi in cui le viti crescevano maritate agli alberi di olmo, o di gelso e gli uomini – non le femmine che portavano ancora le gonne e sotto le gonne niente - s'arrampicavano sulle lunghe scale di legno, armati di forbici, a tagliare i grappoli succosi" (Polia, 2012).

“ (…) Il lavoro era un lavoro che già a quel tempo, io avevo na quindicina d'anni… cominciai a capire che le cose erano organizzate a rovescio: l’omini, noi uomini – io ero ragazzo – ma gli uomini-uomini-uomini con le forbici raccojeva l'ua; le donne, ragazze, giovani, basta che s'aggregavano in piedi je mettevano un secchio ‘n cima a la testa e dopo dovevano portare quel secchio in cantina” ( Polia,2012).

Alle donne non era affidato solamente il compito di trasportare le ceste cariche d'uva ma avevano anche attenzione a raccogliere il mosto con le conche, lo passavano  e quindi lo versavano nei tini di legno che un mese prima erano stati a ritenere. Ciò consisteva nel riempire i vecchi tini e botti di acqua in modo che le doghe, imbevendosi e dilatandosi, fossero a tenuta stagna. Sembra semplice, ma se si considera che occorrevano vari quintali di acqua e che la più vicina sorgente o fontana distava chilometri, per cui le donne dovevano portarle a casa con le conche (di venti e più chili) tenute in bilico sulla testa, ci si rende conto dello sforzo che dovevano fare. “La vendemmia a me m'ha storto la coccia", così commenta un’anziana di Monsampolo del Tronto interrogata sul lavoro da ragazza in vigna (Polia, 2012).

Quello che viene fuori da queste testimonianze è che alla manovalanza femminile toccava il lavoro più faticoso, mentre erano completamente escluse a priori da tutta la parte che riguardava la pigiatura dell'uva. Ma perché accadeva questo?

“Facevamo le gare, noi contadini, a chi faceva lu vì più bono… Lo schiaccevamo addirittura co i piedi, scalzi, non c'era nemmeno i stivali… Le donne a pistare, mai viste: pistavano solo gli uomini. Perché c'era un detto: “No, no, le donne a pistà l'uva, perché la maggior parte tutte senza mutande, je scappa la pipì…”. Solo gli uomini a pistare l'uva" (Polia, 2012) 

Ancora agli inizi del secolo scorso, nel Fermano, si credeva che se le donne avessero pigiato l'uva, il vino non avrebbe potuto essere usato per la consacrazione eucaristica (Mannocchi, 1920).

Sostanzialmente identica ma descritta in termini opposti è la testimonianza diretta trascritta dalla Pigorini-Beri durante una visita-studio alla vendemmia in una tenuta nelle campagne di Camerino, che descrive il frenetico lavorìo della vigna “un tramestio di soli uomini; perché le donne in questa grande bisognia c’entrano poco o punto: “le femmine in cucina e gli uomini in cantina”. Le donne portavano soltanto dei brocchi d'acqua ad ogni richiesta, sostituendo le somarelle quando erano stanche; e venivano recando al padrone le canestre piene di grappoli colti a coppia dagli alberi di verdicchio, di ribona o di moscatello, le migliori qualità da appendere e conservare; e cocevano al forno lo zibibbo zuccherino, la scocciapala, la passerina per fare il pan nociato nel giorno dei morti o la frustegna nell'inverno o il pan cotto pei quattro tempi.”


Fenomeno nettamente inverso accadeva invece in zona Sassoferrato, dove i compiti legati alla vendemmia erano distribuiti ben diversamente: mentre le donne vendemmiavano e i ragazzi raccoglievano i grani caduti, gli uomini raccolti nei sudici masgappi (guazzeroni) sbrigavano le operazioni più pesanti per l'ammasso e il trasporto delle uve vendemmiate. I masgappi (dal latino “gausapio" o “gausape"; Battelli, 1947) erano dei larghi camicioni di linone (lino grezzo) chiaro; nelle campagne picene era ed è ancora noto come guazzarò, e qui veniva indossato pulito ed immacolato dagli uomini addetti alla pigiatura che, per evitare di macchiarlo durante la lavorazione, lo raccoglievano alla cintola.

Al termine del processo di pigiatura dell'uva, un po' di mosto veniva subito usato dalle donne per fare ciambelle e biscotti o, in alcuni casi, per condire l’eterna polenta del pover’uomo. Un altro po', messo nei fiaschi, fermentava per qualche giorno e quindi i contadini, che lo chiamavano acquarielli, lo bevevano a garganella. “Dicevano che non faceva male ma alla sera erano spesso sbronzi" (Balena, 1984). La vera provatura del vino novello sarebbe stata fatta a San Martino, quando le botti venivano sturate, ma ciò non impediva comunque che l'ebrezza e la goliardica giocondità di cui spesso il vino è complice, fossero catalizzatori di tutte le vicende umane – intime e collettive – che nascevano tra i lavoratori della vigna. Forse per quell’arcaica attribuzione del vino a divinità come Bacco o Dioniso, che in tempi antichi dava forma a celebrazioni rituali in cui venivano stravolte le strutture logiche, morali e sociali del mondo abituale, e che rievochiamo ancora oggi inconsciamente quando ricerchiamo una rottura o un distacco dai nostri limiti comportamentali, le situazioni per ricreare questa ebrezza collettiva si riuscivano a creare anche in tempo di vendemmia. A questo proposito, torna importante la presenza delle donne, “anima e gioia" della vigna: “un loro sorriso avrebbe reso più leggero e veloce il lavoro (…) uno sguardo tra i grappoli, magari accompagnato da un sorriso, era più dolce dell'uva matura e più inebriante del mosto che ferveva nei tini. E nel fervere del lavoro tra i filari onusti di grappoli, tra richiami, canti e lo squillare argentino di risa in mezzo alle foglie calde di sole, si cercava l'occasione propizia per dichiarare un amore protetto a lungo dal silenzio, o per alimentare la scintilla suscitata da uno sguardo, da un gesto, dalla passione con cui prorompeva dal petto una strofa. Una come questa:

Venne bellina, venne su a lu monte:
lu sole vascia l'uva e l’atre piante, 
io te vascerò ‘ssa bella fronte.

Venna carina, venne jò a le piane:
l'ua pija lu colò de lu limone,
li pampini l'color der verderame.

Senza canestru l'uva non se coje, 
io non vellegnerò senza de vuje 
perché dovete esse la mi' moje. 

Venne, se voi venì co me a la vigna,
te la so fatte na bella capanna,
lu tettu te so fatte de gramigna
e li cuscini de foje de canna
e li lenzoli de pampini d'ua:
dormi, bellina mia, ‘n questa frescura. (Polia, 2012)

La sestina che chiudeva il canto era recitata in tempo di vendemmia e con le medesime parole anche a Puro (Cascia), dove fu importata dai mietitori che facevano la spola tra Marche ed Umbria.

Frequenti erano anche gli episodi di aggregazione dei lavoratori a scopo puramente goliardico, agevolate dalla costante presenza di vino vecchio ed acquarielli e da canti tradizionali, tramandati da generazione a generazione e di cui ancora oggi possediamo le scorie mutate da decenni di passaggi orali e smussature linguistiche. Quelle delle vendemmie erano quindi anche giornate di spensierata allegria, oltre che di lavoro duro, continuazione, forse, delle antiche feste vendemmiali, che i contadini allietavano con canti e scherzi (tipico, la mostarola), con sfide di stornelli ai vendemmiatori dei campi vicini, con suoni e con balli. 

“Ecce bombo!”, l'esclamazione romanesca, che ha dato il titolo anche ad un famoso film di Nanni Moretti, potrebbe facilmente tradursi nel detto ascolano “egghie lu vì!" (ecco il vino), usata nei confronti di chi risentiva evidentemente degli effetti inebrianti della bevanda alcolica. Ma il termine bombo era spesso usato anche nelle nostre zone per intendere il vino, tanto che viene ancora usato per indicare come bumba l'acqua che si dà ai bambini (da “imbibere"). In realtà il termine bumbabà, riferito ad un particolare canto che animava la vendemmia, è noto un po' in tutta l'Italia: la canzone del Bumbabà ha attirato l'attenzione degli studiosi i quali cercarono di rintracciarne le propaggini primitive nei canti goliardici; la versione più convincente sull'origine del nome ci suggerirebbe che bumbabà sarebbe l’imperativo di “bombare", verbo fanciullesco ancora vivo nel lucchese. Una interessante descrizione del 1940 dipinge la canzone del Bumbabà come un canto gioioso che s'innalza durante il tramutare del vino, per la mietitura e in genere in tutte le fatiche in cui si fanno spesse e abbondanti libazioni nelle aspre cantine; i giovani, che cominciano a sentire gli effetti dell' “aspro liquore che l'ugola bacia e morde", si dispongono in cerchio, seduti su botti o sostegni di qualunque genere. Si nomina o si estrae a sorte, con la conta, una specie di rex convivii, il quale regola le libazioni, di cui è giudice inappellabile. Traballante, come un perfetto ubriaco, il rex si fa nel mezzo e col boccale o altro recipiente contenente vino, sollevato in alto con la destra e il bicchiere nella sinistra, inizia il rusticale canto di ebrezza:

L'acqua fa male
e ‘l vino fa cantà,
‘l sugo de la cresta (* cresta o gresta è l'uva acerba)
fa girà la testa.

Poi volgendo al compagno, destinato a bere, prosegue:

Bevi, bevi, compagno
si no t'ammazzerò!

Questi, prendendo il bicchiere colmo di vino, risponde:

Nun m'ammazzà, compagno,
ch'adesso io beverò. 

Il coro all'intorno canta:

Finché il compagno beve
Canterém la bumbabà, la bumbabà, la bumbabà!

(…) E questo si ripete affinché tutti i presenti abbiano bevuto. S'innalza allora il coro generale:

E mo che avém beûto,
canterem la bumbabà, la bumbabà, la bumbabà!

Il canto ha una speciale intonazione, da cui differisce completamente quella del canto dei mietitori, i quali, stanchi e avvinazzati, nell'ora del riposo, sollevando in alto la truffa o giusta, cantano:

Pòrteme l'acqua e nun me portà ‘l vino,
l'acqua me fa tené ‘l cerviéllo fino.
Pòrteme ‘l vino è nun me portà l'acqua,
‘l vino me fa cantà, l'acqua m'ammazza! (Vitaletti, 1940)

 

Bibliografia:
“L'aratro e la barca volume I – I mesi dell'anno: liturgia popolare ascolana", M. Polia, edizioni Lìbrati, Ascoli Piceno, 2012
“Folklore piceno", S. Balena, Edizioni Turistiche, Ascoli Piceno, 1984
“Tra cielo e terra, Religione e magia nel mondo rurale della  volume I – Il ciclo dei mesi”, M. Polia, Editrice Centro Italia, Foligno, 2009
“La gente marchigiana nelle sue tradizioni", G. Crocioni, Edizioni Corticelli S.r.l., Milano, 1951
“Costumi e superstizioni dell'Appennino Marchigiano", C. Pigorini-Beri, s. Lapi Tipografo-editore, Città di Castello, 1889
“Feste, costumanze, superstizioni popolari nel circondario di Fermo e nel Piceno", L. Mannocchi, Fermo, 1920 rist. Forni, Bologna, 1980
“Ttìngolo: proverbi, strofette e detti sambenedettesi", V. Liberati, Circolo dei Sambenedettesi, San Benedetto del.Tronto, 1997
“Canti popolari di Valdolmo di Sassoferrato" in “Archivio per la raccolta e lo studio delle tradizioni popolari italiane”, G. Vitaletti, Romeo Prampolini Editore, Catania, 1940
“Canti popolari della montagna lucchese", G. Giannini, Loescher, Torino, 1889

Fonti fotografiche:
“Antologia delle tradizioni marchigiane", L. Mannocchi, 1980 (Festa dell'uva anno 1936, Montalto delle Marche)
“Buongiorno campo di fiori", Adriano Simonella, 2009

Virginia Gidiucci

Virginia Gidiucci nasce nel 1989 a San Benedetto del Tronto dove vive tuttora. Diplomata in Scenografia all'Accademia di belle arti di Urbino, lavora ad Ascoli Piceno come costumista per la Compagnia dei Folli. Grazie alla sua passione per la montagna...
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