EXTRALUNARIO. A Tito e i suoi “fratelli”

Scritto il 05 Novembre 2021 da Virginia Gidiucci

Ci sono troppe cose da dire su Novembre, mese ricco di festività religiose e ricorrenze pagane, culti, credenze e tradizioni, che ho trovato opportuno creare questo “speciale” per approfondirne qualcuna. Questa piccola raccolta di simbolismi e leggende popolari sulle anime dei defunti è dedicata al ricordo di tutti coloro che le nostre montagne continuano a cullare nel loro eterno abbraccio.

Ho deciso di parlare della celebrazione dei morti attraverso due aspetti meno noti e fortemente radicati alla cultura del luogo in cui viviamo, superstizioni che nascono da tradizioni perse nell'antichità dei tempi e che, ancora oggi, ci inducono a riflettere a fondo su ciò che incontriamo sul nostro cammino. La paura che l'uomo ha sempre nutrito nei confronti della morte, e di ciò che ne accadrebbe dopo, è alla base di certe credenze e superstizioni che alimentano riti, gesti, oboli, volti a restituire la pace ai defunti. Tra queste credenze spicca per numero di testimonianze dirette quella riguardante il tabù dell'uccisione delle farfalle: un tempo la gente credeva che le farfalle, specie quelle notturne che s'introducevano in casa attratte dal chiarore delle lampade, fossero metamorfosi dei defunti. “Anche le farfalle sono anime” (Sossasso di Montefortino; Polia, 2012).


Ad Appignano del Tronto le farfalle, interpretate come metamorfosi delle “anime sande”, “nen se potié mmazzà” (Polia, 2012). In Abruzzo, “nel cominciare l'agonia, il morente è visitato dalle anime dei suoi morti; i quali, sfilandogli accanto, lo salutano, dandogli dell'”amico”. Un uomo che era stato in fin di vita, rammentava bene che i morti di sua casa lo avevano visitato. Codeste anime dei morti sono alle volte visibili sotto forma di farfalle; sicché possano essere viste da chiunque. C'è chi ne ha viste in copia, “gné 'na vruccamme de ciaramèlle”, come una folata di farfalle (Gessopalena). Ma, anche fuori di questo caso, se ne vedono. Delle farfalle notturne, che svolazzano, nelle sere d'estate, intorno al lume, si deve aver compassione appunto perché sono “anime del Purgatorio”. Particolarmente le bianche, sono anime del Purgatorio, che si ricordano dei loro cari e vanno a visitarli. Se si posano sulla persona, è buon augurio. Perciò, in Toscana, chiamate “Fortune” (Finamore, 1981).

Stessa identica credenza la troviamo anche in Umbria, più specificamente nel Leonessano; qui, inoltre, si credeva che anche le lucciole fossero anch'esse manifestazioni di anime di defunti benevoli (Polia – Chávez, 2002). In Friuli, anni addietro, tra i contadini era molto diffusa la leggenda secondo la quale, dopo il disastro del Vajont, per giorni e giorni sul luogo dove tante vite erano state troncate, volteggiavano quantità incredibili di farfalle. A Castel Trosino si credeva che le “anime in pena”, ad esempio quelle dei neonati morti prima del battesimo, si trasformassero in grilli oppure in insetti dalle lunghe ali. “Tu lo vedi, e pensi che è un grillo. Invece no; è un'anima in pena che si trasforma in una bestia” (Polia, 2012). Questi si poggiavano sul davanzale della finestra, si diceva, per spiare cosa succedesse in casa. Gli animali domestici percepiscono tale metamorfosi ed iniziano ad essere inquieti e a sudare: “Quanne ve' lu rille, li bestie li truove tutte bagnate da lu sudore perché se n'accorjie”. Pure le “sdreghe” potevano trasformarsi in grilli, o insetti alati ed anche in questo caso la loro identità era percepita dagli animali (Polia, 2012).


La credenza che le farfalle siano l'incarnazione delle anime dei defunti è universale, ed ha origini molto antiche; si consideri, ad esempio, che nella lingua greca il termine “psyche” si traduce sia come “farfalla” che come “anima”. Presso gli Aztechi le farfalle (“papalot”) è simbolo dell'anima, o del soffio vitale che sfugge dalla bocca del morente: le anime dei guerrieri morti in battaglia, o sacrificati agli dèi, volteggiano sotto forma di variopinte farfalle. Tra le tribù Shuar-Shuar-Jívero dell'Alta Amazzonia, le anime dei morti in attesa di reincarnarsi volteggiano nei pressi delle sacre cascate e, nell'incantesimo detto “delle farfalle”, lo sciamano, dopo aver cantato un carme magico, distacca le ali di una farfalla in modo da togliere all'anima dell'avversario la forza di combattere (Polia, 2009).


Un'altra importantissima credenza legata, questa volta, all'atto di restituire la pace alle “anime in pena” è legata alla terra, in particolar modo alla pietra. “Quanno se moriva qualche vecchio e non ce la faceva a murì, stava sette otto giorni in agonia, i famijiari, pensando che aveva cavato qualche termine, andavano a prendere un sassolino dove secondo loro (...) aveva fatto 'sta cosane glielo mettevano sotto il materasso, così moriva prima” (Rigo di Montegallo; Piano di Montegallo; Polia, 2012). Sempre nel territorio piceno “se il moribondo si fosse attaccato con particolare tenacia al lenzuolo, non c'erano dubbi: certamente doveva aver spostato, magari di pochi centimetri, una pietra di confine cercando di appropriarsi di terra altrui” (Balena, 1984). In Abruzzo si credeva che l'agonia di chi avesse violato un confine fosse assai lunga; per alleviarla, a Fara Filiorum Petri, bisognava porre sotto il capezzale del moribondo una pietra, oppure un ciottolo. Anche in Umbria, in Valnerina, “li tèrmini” costituivano un elemento sacrale che esigeva il massimo rispetto. Un'autentica incisione romana, scolpita su un cippo di confine, avvertiva: “Quisquis hoc sustulerit aut iusserit ultimus suorum moriatur; Chiunque abbia spostato questo (cippo) o ne avrà ordinato lo spostamento, possa morire dopo che tutti i suoi siano morti” (Polia, 2009).


La violazione dei confini era considerata una colpa gravissima per aver ignorato la sacralità dei “termini”. Un tempo, infatti, il confine tra una proprietà e l'altra era segnata da pietre “sacre” (in genere tolte ai sepolcreti della protostoria) e posta sotto la tutela del dio latino Terminus. Alla base c'era quindi la concezione della sacralità della proprietà e la convinzione che i reati contro il patrimonio fossero più infamanti di ogni altro. Chissà se colui o coloro che hanno rimosso il cippo di confine adiacente alla Macèra della Morte, posto a termine di tre regioni (Marche, Abruzzo e Lazio), gettato in un canalone e recuperato solo di recente da un gruppo di volontari, fossero a conoscenza di tale superstizione...

La sacralità delle pietre, per la nostra gente di fondo culturale mediterraneo, ha radici molto antiche che riconduce il ciclo della vita ad una diretta appartenenza alla madre terra, dalla quale l'uomo era venuto per “morire” ed infine ritornare ad essa. Nei decenni in cui ancora queste pratiche e credenze erano diffuse tra la gente picena, esistevano ancora tracce dell'antichissimo “culto delle pietre” derivato dall'adorazione della madre terra. Il culto si manifesta in un mito umanamente comprensibile, ricordato attraverso riti nei quali l'uomo ogni volta rinnova l'antica credenza. Ne è un esempio la pietra che veniva portata dai pellegrini sul Monte dell'Ascensione ogni anno durante la ricorrenza che ne celebra il nome; la pietra non simboleggiava soltanto la penitenza cristiana, ma indicava la precisa volontà di “seppellire” il corpo di Polisia scomparsa in uno di quei dirupi, secondo quanto narra la leggenda. La pietra starebbe così a simboleggiare un sepolcro, una tomba. “Quando abbiamo chiesto ad alcuni pellegrini perché portavano fin sulla vetta quelle pesanti pietre per poi gettarle nel dirupo, ci hanno detto “noi diamo pace a Polisia e Polisia dà pace a noi”. Altri, invece, ammucchiavano le pietre sulla cima del monte creando così, per la stessa ragione, il “tumulo”, cioè la tomba” (Balena, 1984).

Una simile usanza si ritrova anche in Abruzzo: “dove fu ammazzato un uomo, usa in alcuni luoghi gettare dai passanti un sasso, e, nel tempo istesso, recitare un Requiem” (Finamore, 1981). Tale simbolismo ricorre a livello universale. “I Tartari e gli abitanti della piccola Russia credono che il viandante si assicuri un viaggio felice quando, incontrando per via un monticello di pietre, che copre alcuna tomba vi aggiunge di suo una pietra (...) Usi somiglianti si ritrovano tra Germani (...) gl'Indiani (...) e altri popoli (...) Gli antichi Greci (...) e gli abitanti dell'Italia meridionale avevano un uso somigliante (A. De Gubernatis, “Mitologia comparata”). Un grande senso della morte doveva dunque avere il viandante... “Spesso lungo le strade si incontrano mucchi di sassi che all'apparenza non si spiegano” (Balena, 1984). In Corsica, dove questi mucchi di pietre sono molto numerosi, vengono chiamati nel dialetto locale “cumuli di mala morte”; per la popolazione locale stavano ad indicare il punto dove qualcuno era stato ucciso per vendetta o gelosia e dove l'anima tormentata continuava a vagare in cerca di riposo. I viandanti allora, passando, si facevano il segno della croce e gettavano una pietra; “lo fanno per pietà “perché a quel morto bisogna dare sepoltura ed è necessario tenerlo buono”. Sotto un mucchio di pietre...” (Balena, 1984).

Agli inizi degli anni '50 è un fatto constatato che al valico di Forca di Presta, tra Pretare e Castelluccio sorgevano due mucchi di pietre, ad una distanza di circa 50 metri l'uno dall'altro. La leggenda narra che due fratelli si fossero dati appuntamento al valico per risolvere una questione di pascoli; all'alba erano saliti a Forca di Presta dai due opposti versanti e quando si erano visti avevano sparato l'uno sull'altro, morendo entrambi. Da quel giorno i due spiriti erano rimasti a guardia del valico e non avrebbero fatto passare nessuno se questi non avesse posto una pietra per la loro tomba. Col tempo quindi, pastori e mietitori che salivano da Pretare per la Strada dei Mietitori deponevano una pietra sull'antico tumulo e lo stesso facevano gli altri salendo dalla parte umbra per scendere ad Ascoli. Su tutti i valichi (degli Appennini e delle Alpi) un tempo, e qualcosa ne è rimasto tuttora, c'erano tumuli eretti dai passanti; forse la ragione è che un valico è sempre un posto di frontiera dove gli uomini (i “fratelli”) si sono spesso ammazzati.

Non abbiamo fonti certe che questo racconto sia verità o pura fantasia, fatto sta che a Forca di Presta “adesso è passata la strada, le ruspe hanno buttato a valle le pietre e l'antica leggenda è stata cancellata. Ma sopra, sul costone della montagna, dove è morto un giovane scalando il Vettore, c'è una croce e intorno alla croce sta nascendo un mucchio di pietre. Sono i pastori e i viandanti. Leggende, superstizioni, credenze sono dure a morire così come resistono le paure, le angosce e le speranze degli uomini” (Balena, 1984).

Bibliografia:
“Folklore piceno”, S. Balena, Edit – Edizioni Turistiche, Ascoli Piceno, 1984
“Tradizioni popolari abruzzesi”, G. Finamore, Edikronos, Palermo, 1981
“L'aratro e la barca. Tradizioni picene nella memoria dei superstiti” vol. II “Il sacro quotidiano”, M. Polia, Edizioni Lìbrati, Ascoli Piceno, 2012
“Tra cielo e terra. Religione e magia nel mondo rurale della Valnerina” vol. III “Tematiche del pensiero religioso e magico”, M. Polia, Edicit – Edizioni Centro Italia, 2009
“Mio padre mi disse. Tradizione, religione e magia sui monti dell'Alta Sabina”, M. Polia, F. Chávez Hualpa, Edizioni Il Cerchio, Rimini, 2002

Fonti fotografiche:
(in ordine di apparizione)
Foto di Iulia Perca e Marco Michelini Foto di Gianluca Carradorini
Foto di Gianluca Carradorini
Foto di Matteo Vergari
Foto di Gianluca Carradorini
Foto di Guido Faustini (ceppo di confine numero 592 riposizionato a Settembre 2021) Foto di Guido Faustini (volontari a lavoro per il ripristino del ceppo numero 592)
Foto d'epoca dall'archivio privato di Francesco Barbetti (valico di Forca di Presta, 1918) Foto di Marco Stortoni (giochi di neve a Forca di Presta)
Foto di Gianluca Carradorini

Virginia Gidiucci

Virginia Gidiucci nasce nel 1989 a San Benedetto del Tronto dove vive tuttora. Diplomata in Scenografia all'Accademia di belle arti di Urbino, lavora ad Ascoli Piceno come costumista per la Compagnia dei Folli. Grazie alla sua passione per la montagna...
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