Ben venga maggio

Scritto il 18 Maggio 2022 da Virginia Gidiucci

“Ben venga Maggio

e ‘l gonfalon selvaggio! Ben venga primavera,

che vuol l’uom s’innamori: e voi, donzelle, a schiera con li vostri amadori,

che di rose e di fiori,

vi fate belle il maggio, venite alla frescura

delli verdi arboscelli.

Ogni bella è sicura

fra tanti damigelli,

ché le fiere e gli uccelli

ardon d’amore il maggio.”

scriveva il poeta Angelo Poliziano nel 1400, declamando il mese di maggio in questa sintesi evocativa dall’aspetto romantico che ben si addiceva alle feste di inizio primavera. In questo articolo andremo ad individuare le correlazioni tra il mese di maggio e il mondo arboreo e vegetale, oltre alle varie interpretazioni che l’uomo ha dato loro. Tentare di rintracciare le origini di certe credenze non è affatto banale, a partire dall’enorme problema che il nome stesso di “maggio” già aveva creato in epoca Romana.

I Romani, infatti, hanno sempre chiamato Maius questo mese pur non essendo concordi sull’origine del nome. Secondo Fulvio Nobiliore, console nel 189 a.C., Romolo divise il popolo in anziani, o maiores, ed in giovani, o iunores, perché gli uni difendessero lo Stato con il consiglio, gli altri con le armi: ai primi avrebbe dedicato Maius, ai secondi Iunius, giugno. Macrobio Teodosio riferiva che secondo altri studiosi questo mese passò ai fasti romani da quelli di Tuscolo, dove si invocava il dio Maius, appellativo di Giove, che ne evidenziava maestà e grandezza. Lucio Cingio riteneva invece che Maius derivasse da Maia, la stessa che Lucio Calpurnio Pisone chiamava Maiestas, ossia la sposa di Vulcano alla quale il flamine del dio sacrificava il primo di maggio. Per Macrobio, la Terra veniva denominata Maia “per la sua magnitudine, cioè grandezza, allo stesso modo che nei sacrifici viene invocata come Mater Magna; e si dimostra questa tesi ricordando anche l’uso di immolare una scrofa gravida, che è vittima proprio della terra”. Come ha sottolineato Dario Sabbatucci, Maius, Maia, Maiestas, maiores, sono tutti riferibili a maior (Cattabiani, 1994); perciò si potrebbe congetturare che maggio fosse caratterizzato come “maggiore” di un altro ciclo dell’anno, forse di quello della primavera iniziale, e quindi elevarlo come il periodo di trionfo della primavera, ma si tratta di problematiche sulle quali già discutevano i Romani al tempo dell’Impero senza giungere ad un pensiero maggioritario condiviso.

L’usanza di celebrare il trionfo della primavera i primi di maggio era già diffusa già tra i popoli italici latini quando nel 238 a.C. Roma istituì le giornate di festa in onore della dea Flora, i Floralia. La dea era venerata per la capacità di proteggere le piante utili e soprattutto gli alberi nel periodo della fioritura: Ovidio nei Fasti la chiamava, infatti, “madre dei fiori” e il suo nome aveva la stessa radice di flo, floris. Protagoniste e scherzose sacerdotesse dei Floralia erano le donne licenziose, simboli della sessualità allo stato puro, la grande energia cosmica che rinnova la vita. Ai Floralia si doveva partecipare abbigliati con colori sgargianti, ad imitazione dei fiori. Durante i Floralia si gettavano ritualmente alla terra i semi per renderla propizia. Poi tra giochi, corse e rappresentazioni teatrali si simulavano cacce scherzose ed incruente di animali domestici che venivano poi dati in premio alle cortigiane vincitrici di scherzosi combattimenti gladiatori (Cattabiani, 1994).


”The May Pole”, Clarence Hudson White, 1899

Le celebrazioni per l’arrivo del mese primaverile sono diffuse in tutta Italia con il nome di Calendimaggio e sentite, in particolar modo, nelle regioni centrali di Toscana, Umbria e Lazio, dove ricorrono eventi annuali di importanza nazionale. Questi eventi si basano sulla ricostruzione del Calendimaggio in epoca medievale, quando era una festa corale non meno importante del Carnevale. Al tempo stesso, il Calendimaggio medievale trae le sue origini dalle feste che si celebravano il primo di maggio nelle aree dell’Italia di cultura celtica, come la Pianura padana, giorno che segnava l’inizio del trionfo della luce sulle tenebr ed in cui si celebrava la solennità di Beltane. Il termine Beltane significa letteralmente “fuoco di Bel”: è molto probabile, confrontandone le etimologie, che la divinità Bel si identifichi con Belanu, dio celtico della luce e del sole, adorato nella Gallia con il nome di Belenus. “Secondo Françoise Le Roux e Christian‐Jean Guyonvarc’h, Bel sarebbe un’epiclesi di Lug nella sua valenza luminosa, simmetricamente opposto al Lug di Samain, che all’inizio di novembre prelude all’inverno ed all’oscurità” (Cattabiani, 1994).

Le celebrazioni di Beltane prevedevano dei giochi d’armi, dei combattimenti in piccoli gruppi, che si evolsero nelle giostre medievali. Gli atteggiamenti licenziosi che suscitavano spontaneamente le celebrazioni di maggio subirono una fortissima repressione con l’avvento del cristianesimo. Mentre il sincretismo cristiano era riuscito a far sue, almeno nell’aspetto esteriore, certe festività pagane, con queste c’era ben poco da fare. I Longobardi, insieme alle altre tribù germaniche scese in Italia con le invasioni barbariche, riportarono in auge le celebrazioni dedicate a maggio introducendo i loro riti arborei collegati alla celebrazione della primavera trionfante. Come i Celti usavano appendere una corona primaverile ad un tronco sfrondato (Cattabiani, 1996), così nelle tradizioni germaniche l’albero aveva un ruolo importante, e non è infondato supporre che il nostro “piantamaggio”, o semplicemente “maggio”, sia un’usanza dei popoli dell’area celtica e germanica settentrionale che si innestò sui riti latini in onore della dea Flora (Cattabiani, 1994). La presenza dell’albero non è casuale perché, come scritto da Mircea Eliade, “la vegetazione è una manifestazione della realtà vivente, della vita che si rigenera periodicamente. I miti degli alberi antropogeni, i cerimoniali primaverili della vegetazione, le leggende sull’origine dei semplici, o sulla trasformazione in piante dei personaggi favolosi, eccetera, altro non fanno che esprimere simbolicamente o drammaticamente una stessa affermazione teorica: la vegetazione incarna (o significa, o partecipa a) la realtà che si fa vita, che crea senza inaridirsi, che si rigenera manifestandosi in forme innumerevoli, senza esaurirsi mai. (...) Questo equivale a dire che la vegetazione diventa una ierofania – incarna e rivela il sacro – nella misura in cui significa qualche cosa di diverso da sé. Un albero o una pianta non sono mai sacri in quanto albero o pianta; lo diventano partecipando ad una realtà trascendente, lo diventano perche significano questa realtà trascendente. (...) Il cosmo è simboleggiato da un albero; (...) la fecondità, l’opulenza, la fortuna, la salute – o, ad uno stadio più elevato, l’immortalità, la giovinezza eterna – sono concentrate nelle erbe e negli alberi. (...) In breve, tutto quel che è, tutto quanto è vivente e creatore, in uno stato di continua rigenerazione, si formula per simboli vegetali. (...) La primavera è una risurrezione della vita universale e di conseguenza della vita umana. Con quest’atto cosmico tutte le forze di creazione ritrovano il loro vigore iniziale; la vita è integralmente ricostruita, tutto comincia di nuovo; in breve, si ripete l’atto primordiale della creazione cosmica, perché ogni rigenerazione è una nuova nascita, un ritorno a quel tempo mitico in cui apparve per la prima volta la forma che si rigenera” (Eliade, 1976). Altre tradizioni importate dai popoli del nord legate al primo maggio, che affiancavano quelle dedicate a propiziare la fertilità, erano quelle legate all’aspetto marziale della società germanica: Beltane non significava soltanto l’inizio del semestre del Sole trionfante, ma anche l’inizio della stagione di guerra e veniva celebrata con combattimenti e cacce sacre; “l’uomo non era solo quello che faceva l’amore ma anche quello che faceva la guerra. In questa duplice funzione i “bei fusti” dell’esercito erano tenuti in alta considerazione. Quasi venerati” (Balena, 1984).

Per approfondire il rito del “piantar maggio” è necessario prima mettere in luce l’aspetto funebre che si insinua nell’abbondanza della rinascita cosmica; se il primo giorno di maggio segnava l’inizio del trionfo della luce sulle tenebre, nella notte della veglia, come in ogni periodo di passaggio, si entrava in comunicazione con il mondo infero e con i morti. Scrive Eliade: “Simili ai semi sepolti nella matrice tellurica, i morti aspettano di tornare alla vita sotto nuova forma. Per questo si accostano ai vivi, specie nei momenti in cui la tensione vitale raggiunge il massimo, cioè nelle feste dette della fertilità, quando le forze generatrici della natura e del gruppo umano sono evocate, scatenate, esasperate dai riti, dall’opulenza e dall’orgia. Le anime dei morti hanno sete di esuberanza biologica, di ogni eccesso organico, perché questo traboccare di vita compensa la povertà della loro sostanza e li proietta in un’impetuosa corrente di virtualità e di germi. (...) Se i morti ricercano le modalità spermatiche e germinative, è altrettanto vero che anche i vivi hanno bisogno dei morti per difendere i seminati e proteggere i raccolti. (...) Ippocrate ci dice che gli spiriti dei defunti fanno crescere e germinare i semi” (Eliade, 1976).

Per questo motivo nella notte del 30 aprile si susseguivano, in un’atmosfera orgiastica, banchetti e danze che terminavano con l’espulsione rituale dei morti, ovvero con l’avvento della “nuova vita”. Sulla notte vegliava la Grande Madre della fertilità che dominava allo stesso modo il destino dei semi e quello dei morti. Con la cristianizzazione dell’Europa la notte del 30 aprile subì una metamorfosi; si diceva che vi si dessero convegno spiriti inferi, streghe e stregoni, che si dovevano espellere grazie all’intervento intercessorio di santa Valpurga, una monaca inglese (710‐778) diventata badessa del monastero tedesco di Heidenheim presso Eichstätt, dove fu sepolta il 1 maggio 871 nella chiesa di Santa Croce: santa che ha ereditato le funzioni della Grande Madre ed ha dato il nome alla notte (Cattabiani, 1994). In Boemia durante questa notte magica, considerata alla stregua di Samain, i giovani si radunavano dopo il tramonto su un’altura o ad un crocicchio, e schioccavano le fruste con energia: fin dove si sentiva il loro suono, le streghe fuggivano e non potevano più nuocere. Nel Tirolo, negli ultimi giorni di aprile si preparavano fasci di frasche resinose, di cicuta, rosmarino e ramoscelli di pruno. Nello stesso tempo si purificavano e si fumigavano le case con bacche di ginepro e ruta. Quando calava la notte della vigilia, cominciava il rito dell’espulsione delle streghe. Si faceva un gran frastuono – usanza tipica anche della notte di San Silvestro – con fruste, sonagli, vasi, casseruole. Le donne portavano incensieri, mentre i cani correvano in lungo ed in largo abbaiando e ringhiando. Poi al suono della campana si incendiavano le fascine e si accendeva l’incenso urlando fra un chiasso assordante: “Fuggi, strega, fuggi, o male sarà per te”. Infine si correva a perdifiato intorno alle case, ai cortili ed al villaggio (Cattabiani, 1994).

“L’albero della cuccagna”, in “Disegni etnografici” di L. Mannocchi

Qualche frammento di questa antichissima credenza lo ritroviamo in alcune pratiche in uso ancora nel primo dopoguerra nelle zone dell’Umbria, dell’Abruzzo e delle Marche, sopravvissute forse ignorandone la ragione. A metà del XX° secolo, scrive Crocioni, le usanze tipiche del maggio nelle Marche erano “alcune scadute, altre fiocamente ancor vive” (Crocioni, 1951). Gruppi di cantori, preceduti da un portatore del “maggio”, un ramo carico di foglie novelle, passavano per i villaggi cantando strofe nelle quali, in apparente contrasto con lo spirito del maggio e la resurrezione della natura, comparivano frequenti accenni alle anime dei defunti.

L’arcaica e profonda relazione tra la morte e la fertilità e tra i morti ed il mese di maggio, oltre che dai riferimenti nei canti a questua, è espressa anche nei piatti tipici del Calendimaggio abruzzese. “Cibo di rito, nel calendimaggio, è una minestra formata da ogne sorta – nove sorta – di legumi e cereali, detta lessame (Gessopalena), lessagna (Guardiagrele), lessiéma (Chieti), virtù o cucina (Campli, Teramo, Pietracamela), virtute (Montenerodomo), granate (Popoli, Rivinsondoli), cutemajje (Pescocostanzo). I poveri ne chiedono per carità, e, tra i popolani, gli amici se lo scambiano. (...) Un po’ di lessame si dà da mangiare anche agli animali domestici, specialmente ai bovini, per preservarli dai serpi, dai tafani – da li ciambine ad Atessa – e da ogni altra sorta di animali nocivi (Casoli). Della pignata [minestra di legumi] del primo di Maggio si fa mangiare un po’ alle bestie gravide ed alle galline (Vasto)” (Finamore, 1890).

L’antropologo Mario Polia ha riportato l’usanza di cibarsi di fave durante il calendimaggio nursino, riconducendola all’antico contesto delle celebrazioni romane dei Lemuria che avevano luogo il nove, l’undici ed il tredici di maggio. In quei giorni gli spiriti degli antenati, col nome di lemures, uscivano dai loro sepolcri e tornavano a visitare le case in cui erano vissuti e vivevano i loro congiunti (Ovidio, “Fasti”). Per evitare che decidessero di permanervi a lungo o, peggio, che si affezionassero a qualcuno tanto da decidere di portarlo via con loro, si offrivano ai lemures delle fave e li si invitava a tornare da dove erano venuti, almeno fino ai successivi Lemuria. Nell’antica Roma, infatti, le fave erano il cibo favorito dagli spiriti dei morti e venivano dunque usate nelle offerte rituali dedicate ai defunti (Polia, 2009). L’uso tradizionale delle fave durante le agapi comunitarie del calendimaggio in Valnerina, va inquadrato nel contesto simbolico‐ rituale che associa i semi agli spiriti dei morti. Circa la relazione tra morti e semi e tra morti e fertilità scrive Eliade: “L’agricoltura, come tecnica profana e come forma di culto, incontra il mondo dei morti su due piani distinti. Il primo è la solidarietà con la terra; i morti, come i semi, sono sotterrati, penetrano nella dimensione ctonia accessibile a loro soli. D’altra parte l’agricoltura è per eccellenza una tecnica della fertilità, della vita che si riproduce moltiplicandosi, e i morti sono particolarmente attratti da questo mistero della rinascita, della palingesi e della fecondità senza posa. (...) La Terra Madre o la Grande Dea della fertilità, domina allo stesso modo il destino dei semi e quello dei morti. Ma questi ultimi, qualche volta, sono più vicini all’uomo, e l’agricoltore si rivolge a loro perché benedicano e sostengano il suo lavoro (...)” (Eliade, 1976).

La simbologia della morte è fortemente presente anche nell’aspetto tradizionale che più caratterizza le festività del primo maggio, cioè nel “piantar maggio”. Il rituale, volto a celebrare la fecondità, si compiva con modalità diverse ma finalità univoca un po’ in tutta l’Europa. Il primo maggio, cacciate le streghe, ovvero ricacciati i morti negli inferi, si portava, e si porta ancora dove la tradizione è sopravvissuta, un albero dal bosco collocandolo in messo al paese: è l’Albero di Maggio o, semplicemente, Maggio (Cattabiani, 1994). Scrive Frazer: “Nella Svezia, il 1 maggio si soleva portare nei villaggi un gran pino che veniva adornato di nastri e drizzato in piedi; poi il popolo vi danzava allegramente intorno a suon di musica. L’albero verde restava nel villaggio sostituito da uno fresco il primo maggio seguente. (...) A Bordeaux, il primo maggio, i ragazzi di ogni strada usavano erigere in essa un Maggio che adornavano con ghirlande e una grande corona; e ogni sera per tutto il mese i giovani d’ambo i sessi danzavano e cantavano intorno al palo. Anche oggi si erigono Maggi adorni di fiori e di nastri in ogni borgo e villaggio della gaia Provenza e, sotto di essi, i giovani fan festa e i vecchi si riposano” (Frazer, 1973). In Sassonia, a partire dal XIII° secolo, i documenti parlano delle usanze popolari del maggio consistenti nell’andar nel bosco a cercare gli alberi di maggio (majum quaerere) per riportare pini e betulle a piantare dinanzi alle porte delle case e delle stalle, oltre ad un grande albero, trasportato solennemente fino alla piazza del villaggio, dove veniva piantato (Polia, 2009). Sull’albero sfrondato, cui rimaneva solo una corona di foglie, venivano posti salsicce, dolci, uova ed altri cibi, oltre che nastri variopinti. I giovani vi si arrampicavano per impossessarsene: una sopravvivenza di queste usanze si ritrova negli alberi della cuccagna negli odierni Calendimaggio.

Nelle Marche, oltre all’uso delle serenate sotto le finestre delle ragazze ambite, vi era l’uso di “piantare” dinanzi alle finestre delle innamorate “rami fronzuti, carichi di ciambelle, di arance e di altra frutta, alle quali i più agiati aggiungevano confetti, pasticcini e altri doni”. L’usanza era detta “pianta maggio” e, nell’immediato dopoguerra, era già scaduta. In altri luoghi si piantava al centro della piazza un pioppo altissimo e lo si lasciava per un mese. Sotto a quel pioppo si faceva baldoria e s’intessevano amori estemporanei e licenziosi. Alla fine di maggio il pioppo era venduto all’asta e il ricavato usato per far baldoria (Crocioni, 1951). La celebrazione del maggio, “lu magge”, era particolarmente sentita nel Piceno, dove il carattere libertino e sessuale era tanto marcato che nel dialetto ascolano “pianta’ maggio” assunse il significato di “fare l’amore”. “La primavera è una resurrezione della vita universale e di conseguenza della vita umana. Con quest’atto cosmico tutte le forze di creazione ritrovano il loro vigore iniziale; la vita è integralmente ricostituita, tutto comincia di nuovo; in breve, si ripete l’atto primordiale della creazione cosmica, perché ogni rigenerazione è una nuova nascita, un ritorno a quel tempo mitico in cui apparve per la prima volta la forma che si rigenera. L’idea di rigenerazione della collettività umana mediante una sua partecipazione attiva alla resurrezione della vegetazione, e quindi alla rigenerazione del Cosmo, è implicita in moltissimi rituali della vegetazione. Nelle tradizioni popolari europee si sono conservate le tracce o i frammenti dei complessi drammatici arcaici con cui si affrettava l’arrivo della primavera ornando un albero e portandolo cerimonialmente in corteo. In Europa esiste ancora l’uso di portare un albero dalla foresta e collocarlo in mezzo al villaggio in primavera, all’inizio dell’estate, o per San Giovanni” (Eliade, 1976). Balena attribuisce la causa di certi comportamenti licenziosi, oltre che all’atmosfera evocata dalla festa in onore della fertilità, ad una questione molto pratica di altri tempi. Per Balena il mese di maggio, “nell’economia dell’uomo di ieri, era più adatto per programmare la nascita dei figli. Dopo maggio infatti sarebbero iniziati i faticosi lavori della campagna e non c’era da pensare ad altro. Non solo, ma la donna che avesse concepito a maggio, avrebbe partorito a gennaio‐febbraio, quando cioè non c’era tanto bisogno del suo lavoro” (Balena, 1984). Anche nel Piceno vigeva l’usanza di dichiararsi ad una fanciulla attraverso serenate, rigorosamente accompagnate da organetti e “rebechini” (violini) e doni arborei:

Quande ie bella, quande ie carina!
L’acqua currente la fate fermare;
L’albere sicche lu fate fiorire,

La preta dura la fai lacremare.

“I giovani si recavano prima dell’alba davanti alle case delle loro innamorate e, come segno di dichiarazione, lasciavano ben infisso davanti alle porta un ramo fiorito di acacia o, meglio ancora, di maggiociondolo. Per tutta la giornata, poi, schiere di ragazzi andavano cantando il maggio per le case isolate con la speranza di rimediare qualche cosa di buono, gridando a perdifiato:

Ecche magge ch’è venute,

da tre dì lu so sapute,

sollu sapute pe’ viagge

fore aprili e rendre magge” (Balena, 1984)

Di certi omaggi floreali e sonetti amorosi fa menzione anche Giacomo Leopardi menzionando nelle Ricordanze l’uso locale delle maggiolate: “Se torna maggio, e ramoscelli e suoni van gli amanti recando alle fanciulle...” (Crocioni, 1948).

Il rituale collettivo più diffuso nelle Marche quello di “piantare il Maggio”, che “consisteva nell’andare in un luogo che fosse di tutti e di nessuno (una golena di fiume, un bosco lontano, eccetera), tagliare un albero e poi conficcarlo nel bel mezzo della piazza del paese e farci sotto solenni bevute. Nel corso di queste, ben lisciato ed unto, poteva diventare anche l’albero della cuccagna. (...) Gli uomini, indossato il vestito della festa, si ritrovavano per un preciso appuntamento sotto l’albero dove, dopo brevi battute sulla stagione e sulle previsioni del raccolto, cominciavano le interminabili “passatelle” (Balena, 1984). Le fasi che scandiscono il rito sono le stesse che caratterizzano la triennale Festa Bella di Spelonga, che si tiene nei primi giorni di agosto ed è un retaggio di queste antiche celebrazioni pagane in onore della fertilità. Si può pensare che l’odierna finalità, ovvero quella di onorare la vittoria a Lepanto sull’impero Ottomano attribuendo all’albero la funzione di albero navale, possa aver raggirato le repressioni imposte dal cattolicesimo e, quindi, dallo Stato pontificio, sulle celebrazioni del Maggio consentendo al popolo di Spelonga la continuazione del rito primordiale di rinnovamento.

A San Benedetto del Tronto la festa del primo maggio si celebrava al paese alto o a Ponte Rotto ed aveva il suo culmine nella gara dell’albero della cuccagna: come altrove, l’albero scortecciato, ingrassato e piantato al centro della piazza, doveva essere arrampicato dai contendenti fino quasi alla cima, dove era fissato un travetto dal quale pendevano i vari premi (formaggi, fiaschetti di vino, prosciutti) che sarebbero spettati a colui che avesse toccato con le dita la cima. C’era inoltre chi giocava a morra, ruzzola, tiro alla fune o alla corsa con i sacchi (Bizzarri, 1988).

In alcuni paesi si adottava l’usanza di eleggere un re ed una regina, o contessa, del Maggio, detta anche significativamente Maja, ormai ristretta a rare celebrazioni, come quella del famoso Calendimaggio di Assisi. La rievocazione, di matrice chiaramente ispirata ai giochi medievali, non presuppone la presenza arborea come nucleo della questione simbolica, bensì un personaggio femminile eletto a rappresentare la primavera nella sua florida esplosione vitale e che, come spiegato da Antonio Veneziano, altro non è se non la personificazione dell’albero del Maggio (Cattabiani, 1994).

In Abruzzo, sul finire del XIX° secolo, già “delle antiche usanze del maggio, alcune sono in decadenza rapida (Finamore, 1890).

L’arrivo del maggio era annunciato da gruppetti di cantori e suonatori di cembali (“tamburelli”) preceduti da un ragazzo che inalberava una canna alla quale era sospesa una ghirlanda formata da mazzetti di fiori di campo, piccoli fasci di spighe di orzo e di grano, baccelli di fave, ciliegie ed altre primizie. Le brigate che cantavano il Maggio portavano un pentolino per riporvi l’olio che la gente avrebbe regalato loro, assieme ad una bisaccia o un canestro per riporvi gli altri piccoli regali in natura. In cambio della mancia ricevuta, regalavano un mazzetto di fiori e frutta, detto “maggio”, che precedeva il piccolo corteo di cantori e musici. A Pescocostanzo, i poveri che passavano per i borghi a cantar maggio, chiedevano “ju cutemajje”, la tradizionale minestra di legumi che veniva loro offerta in questa particolare circostanza, recitando frasi augurali per la crescita dell’orzo e del grano (Finamore, 1890).

La regione che forse più di tutte ha conservato nel sentimento popolare le feste del Calendimaggio è l’Umbria. Nel Nursino era detto “ru maggiu”. A San Giovenale di Nocera Umbra la sera del 30 aprule si pianta il calenne, così detto perché è un albero tagliato nei boschi del monte Galenne, e lo si adorna con fiorellini gialli, i maggiociondoli, profumatissimi e dalla forma vagamente fallica. Gruppi di giovani portano i rami dell’albero ed i fiori sotto le finestre delle ragazze cui dedicano serenate e scherzi amorosi (Cattabiani, 1994). A Preci i ragazzi andavano di notte lungo il fiume a tagliare un pioppo alto e dritto. L’albero veniva privato delle fronde e della corteccia lasciando, però, le foglie terminali della cima del pioppo. La spedizione partiva in gran segreto e, soprattutto, doveva restare occulto il luogo da cui sarebbe stato prelevato l’albero “era un segreto”, altrimenti il padrone del terreno avrebbe potuto tentare di impedire l’asportazione. Sempre nottetempo, i giovani portavano il pioppo in paese. A Preci Alto, l’albero di maggio era piantato in piazza, dinanzi alla chiesa. (...) Il 31 di maggio l’albero era venduto ad un falegname e, col ricavato, i giovani che l’avevano tagliato e trasportato organizzavano una cena. A Todiano di Preci il pioppo (albuccio) di maggio veniva tagliato sulla sponda del fiumicello, in località “il Mulino”, scegliendo l’esemplare più alto. L’albero veniva piantato davanti alla porta del paese. Sull’albero si issava la bandiera italiana e si appendeva una corona di alloro: questo gesto patriottico permette di datare l’usanza all’ultimo quarto del XIX° secolo (Polia, 2009). Non appena piantato, la gente si riuniva sotto il Maggio per trascorrere le ore della notte al suono di organetti, tra liete bevute e serenate. Anche qui il pioppo doveva essere rubato nottetempo. Se il padrone avesse colto in flagrante la squadra dei tagliatori, in teoria, avrebbe dovuto accettare il fatto in omaggio alla tradizione e per la gioia di tutto il paese, in pratica, però, avrebbe anche potuto opporsi. Si può dire, insomma, che il Maggio doveva essere “liberamente rubato”, né donato, né sottratto a forza (Polia, 2009). A Cortigno la tradizione locale vietava di togliere il Maggio dalla piazza del villaggio prima della fine del mese: si credeva che, se ciò fosse stato fatto, sarebbero cadute piogge torrenziali che avrebbero danneggiato i raccolti. Quand’era ora, il Maggio era venduto a qualche agricoltore che l’avrebbe usato come asse centrale per il covone (pajaru) più grande (Polia, 2009). In tutti i luoghi in cui vi era la disponibilità, si prediligeva un pioppo bianco (albucciu) alla causa del maggio; dove non ve ne erano si usavano faggi (Cortigno) o pini (Legogne). La scelta di questo albero ha un suo preciso significato: “Il fogliame del pioppo bianco, cupo da un lato e chiarissimo dall’altro, ha da sempre rappresentato la vita e la morte, la rivelazione della sopravvivenza, una volta passata la frontiera fatale (Brosse, 1987). Nella mitologia greca il nome dell’albero si ispira quello di Leukē (“Bianca”), una giovane ninfa che, concupita da Ade, signore degli inferi, sfuggendogli si trasformò in un pioppo dalle foglie argentee che da lei prese il nome leukē, nome che nel dialetto dei montanari dell’Appennino umbro‐sabino, tramite il latino albus (Populus alba), diventa “albuccio”. Alle origini, narra il mito, le foglie del pioppo erano bianche da entrambi i lati. Terminata con successo l’ultima delle sue dodici fatiche, Eracle, uscendo dagli inferi, si cinse la fronte con una corona di fronde del candido pioppo portato da Ade nell’oltretomba in seguito alla trasformazione di Leukē; le foglie che restarono a contatto con la fronte dell’eroe, bagnate dal suo sudore, divennero di nuovo bianche mentre quelle che restarono esposte all’aria rimasero nerastre, a ricordo della permanenza agli inferi (Cattabiani, 1994). Omero chiama il pioppo bianco acheronteo, “dell’Acheronte”, il fiume dell’afflizione (Brosse, 1987). “Nel fulgore del maggio” quindi “il pioppo esprime la silenziosa presenza della morte e dei morti” (Polia, 2009).

Foto di Lorenzo Dottorini

In alcuni paesi, come a Casali di Belforte e a Poggio di Croce (Preci), era usanza che la cima del Maggio, oltre a conservare le proprie fronde, era ornata con un ramo di ciliegio ed uno di melo fiorito. Anche ad Ancarano (Norcia), si legava alla cima un ramo fiorito di ciliegio che, per tradizione, doveva essere anch’esso rubato come il pioppo. A Cortigno la cima del faggio era decorata con un mazzo di fiori che, in quell’epoca dell’anno, fiorivano (cacciavano) nel bosco e nei campi (Polia, 2009). Il rituale è sopravvissuto in qualche cittadina, come Gualdo Tadino, dove, nel tardo pomeriggio della vigilia il gruppo dei maggiaioli, detti “lupi”, si reca nel luogo dove si è individuato il pioppo da tagliare e sceglie un esemplare maestoso e di aspetto insolito. Dopo il taglio caricano l’albero sullo sterzetto, un carro a due ruote, von la punta rivolta all’indietro rispetto alla direzione di marcia in modo che lo si possa trainare con lunghe funi. Partecipano al trasporto un centinaio di uomini con la mezza tunica di tela grezza. Durante il percorso il gruppo incontra una seconda squadra che in un altro luogo ha segato un pioppo più piccolo e più giovane, detto “cima”, che si carica sullo sterzetto. All’inizio del paese i maggiaioli prendono lo slancio per una corsa finale che li conduce in piazza fra l’entusiasmo della popolazione. I due pioppi, scaricati a terra, vengono puliti e scortecciati mentre la folla raccoglie i resti per conservarli come talismani. Poi si congiungono i due tronchi formandone uno solo altissimo, di quaranta o cinquanta metri, che viene innalzato e piantato in una profonda buca dove rimarrà per tutto il mese di maggio (Cattabiani, 1996). Non sappiamo se il “pianta maggio” di Gualdo Tadino conservi oggi le stesse modalità riportate da Cattabiani qualche decennio addietro.

Questa usanza possiede un significato profondo ed antico, che va ben oltre l’ovvia relazione col ramo fiorito e la trionfante primavera e che ormai è stato dimenticato. “Se si compara l’usanza umbra con altri contesti celebrativi del maggio, in Italia ed oltralpe, l’unione dell’albero più grande e più alto con un alberello più piccolo, o, come in questo caso, con uno o più rami di una pianta di specie diversa, forma parte del rituale dello “sposalizio degli alberi”. In Basilicata, per esempio, nel paese di Accettura – tanto per citare uno degli esempi più famosi, studiato da Vittorio Lanternari – nelle feste del mese di maggio si celebra il matrimonio tra un albero “maschio”, il cosiddetto Maggio, ed un alberello “femmina”, la Cima. I due alberi non sono differenti solo riguardo al “sesso” ed alle dimensioni, debbono essere tagliati, secondo l’antica tradizione locale, da due squadre diverse: la squadra incaricata di tagliare il Maggio è composta da un considerevole numero di uomini, dato che viene scelto l’albero più grosso e più alto, a differenza della squadra incaricata di tagliare la Cima. La prima squadra, per il trasporto, usa una o più coppie di buoi; l’altra reca in paese a braccia la Cima. Prima di innalzare il maestoso Maggio, viene assicurata alla sua sommità la Cima in modo che, una volta piantato al suolo, l’albero del maggio sia composto dal Maggio vero e proprio e dalla sua controparte femminile, unita a lui in una sorta di matrimonio arboreo, dettato da considerazioni magico‐ propiziatorie e per mezzo del quale si auspica il rigoglio e l’abbondanza delle specie vegetali utili all’uomo ed al bestiame” (Polia, 2009). Il “matrimonio degli alberi” era quindi un simbolo iconico alla stregua della condotta trasgressiva e disinibita che adottavano gli esseri umani nel periodo annuale di rinnovamento vegetale e che, inconsciamente, adottiamo ancora oggi attraverso un processo di risveglio biologico dall’algidità invernale.

“Le Mythe, Dior”, regia di Matteo Garrone

Bibliografia:

S. Balena, “Folklore Piceno”, Edizioni Turistiche, Ascoli Piceno, 1984

“Le Mythe, Dior”, regia di Matteo Garrone

O. Bizzarri, “San Benedetto del Tronto”, Ancona, 1988

J. Brosse, “Storie e leggende degli alberi”, Edizioni Studio Tesi, Roma, 2020 ristampa del 1987

A. Cattabiani, “Florario”, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1996

A. Cattabiani, “Lunario”, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1994

G. Crocioni, “La gente marchigiana nelle sue tradizioni”, Editrice Corticelli, Milano, 1951

G. Crocioni, “Il Leopardi e le tradizioni popolari”, Editrice Corticelli, Milano, 1948

A. De Gubernatis, “Mitologia delle piante. Ovvero le leggende del regno vegetale”, M.I.R. Edizioni, Montespertoli, 2010

M. Eliade, “Trattato di storia delle religioni”, Universale Scientifica Boringhieri, Torino, 1976

G. Finamore, “Leggende, usi e costumi abruzzesi”, Adelmo Polla Editore, Roma, 2002 ristampa del 1890

J. G. Frazer, “Il ramo d’oro della magia e della religione”, Boringhieri, Torino, 1973

G. Piccioni, “Alla ricerca delle tradizioni perdute”, BIM Tronto, Ascoli Piceno, 2014

M. Polia, “Le piante e il sacro. La percezione della natura nel mondo rurale della Valnerina”, Quater, Foligno, 2010

M. Polia, “Tra cielo e terra. Religione e magia nel mondo rurale della Valnerina” vol. I “Il ciclo dei mesi”, Edicit, Foligno, 2009

Immagini prese dal web

Virginia Gidiucci

Virginia Gidiucci nasce nel 1989 a San Benedetto del Tronto dove vive tuttora. Diplomata in Scenografia all'Accademia di belle arti di Urbino, lavora ad Ascoli Piceno come costumista per la Compagnia dei Folli. Grazie alla sua passione per la montagna...
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