La prima neve aveva cominciato a far sparire le cime, il cielo bianco assorbiva i crinali candidi e il Monte Bove appariva all’osservatore solo interpretando i bastioni e le sporgenze di roccia ancora nuda.
Oggi nevicherà ancora. Il cielo è un monito; sta temporeggiando.
È l’aria dell’Appennino nel suo insieme a rapirmi, come contenitore di un’umanità che riesce ancora a vivere senza piegarsi completamente ai ritmi frenetici delle città. Nell’Appennino intravedo i germogli smeraldini di una nuova civiltà. I Sibillini in particolare sono sempre stati per me monti seduttori, forse per un fatto istintivo, e mi piace ogni tanto lasciare che sia il fiuto a guidarmi, o forse per una morbidezza e una cura nelle linee degli orizzonti che non riesco a rivedere altrove.
Se posso scegliere dove andare a camminare e disperdere i pensieri il Parco Nazionale dei Monti Sibillini è una prima scelta.
Imbocchiamo il sentiero che sale alla Fonte del Lupo.
La strada sterrata che prosegue fino agli impianti sciistici ai piedi del Monte Cornaccione è già ingombra di neve e con la macchina è impossibile salire oltre. Gli impianti di Frontignano sono in disuso da anni: abbandono, incuria e cattive gestioni; poi il terremoto.
Oggi delle ultime seggiovie in quota rimangono solo indizi in rovina. L’osservatore prima ancora delle croci sulle cime noterà l’ingombrante scheletro di cemento arroccato sulla schiena del Bove Sud, camminerà poi tra grossi cavi d’acciaio che strisciano pesanti tra i sentieri e sotto a tralicci solitari, imbruniti di ruggine, che si atteggiano a monumenti. Cose decisamente fuori posto alle quote dei camosci e delle aquile e che hanno finito per essere parti integranti del paesaggio per chi frequenta il massiccio del Bove.
Non siamo soli sul sentiero, da un furgone camperizzato parte una fila di impronte, due coppie di scarponi e otto zampe segnano la neve bianca. Camminiamo sotto un cielo denso, la neve scende con fiocchi radi e asciutti che scompaiono completamente mentre entriamo nella pineta.
"La parete"
Il vento si sta alzando e lo sento distintamente mentre si infila sicuro tra gli alberi, non ne dimentica nessuno, li accarezza tutti facendo cigolare i rami.
Uno scoiattolo si affaccia in una corona di aghi, ci guarda dall’alto di un pino: è fiero del suo equilibrio grandioso fatto di scatti e salti della fede. Ai piedi dell’albero le impronte, se seguite, mi permetterebbero di scoprire da che ramo è sceso stamattina e dove ha gustato la prima colazione. La neve fresca è una delizia per l’occhio curioso.
Il bianco scricchiola sotto le suole, seguiamo le tracce uscite dal camper fino alla fonte.
Siamo ormai usciti dalla pineta e il vento ci confonde per alberi ma non siamo altrettanto radicati. Io nell’ultimo mese ho appesantito un po’ lo zaino dei dolori che porto sulla schiena, un fardello ingombrante, ma il peso non basta e le raffiche più forti mi spostano i piedi.
Mi attacco all’acqua della fonte che mi azzanna i denti. È un ghiaccio ancora liquido. Sorrido, temporeggio prima di deglutire, penso ad una degustazione: assaporo il grado di densità dell’acqua. Qualche grado in meno e le molecole inizieranno la danza del passaggio di stato.
Alcune bacche di rosa canina particolarmente tenaci macchiano di rosso l’orizzonte. Oltre quei rami spinosi si erge una ripida parete rocciosa, quella è terra di camosci.
Ecco ancora quell’equilibrio grandioso che contemplavo anche nello scoiattolo. Uno schiaffo alla gravità, una seppur apparente fuga dalle leggi della fisica, delicata e audace caccia al baricentro condotta da zampe e cuori benedetti. Dimentichiamo spesso che il concetto di stabilità è relativo alla capacità di aderire anche a ciò che sembra inafferrabile. Li vedo con il binocolo apparire e scomparire. Le nuvole basse invadono la muraglia di roccia e neve aprendo e chiudendo il sipario.
Comincio a sentire lo zaino meno pesante.
"Resilienza degli alberi"
Intanto la neve si fa più insistente e le raffiche di vento trasformano i fiocchi in coltelli e spilli da sarta. Copro il viso allacciando la giacca fino al naso, proteggo gli occhi lasciando che le palpebre socchiudano il campo visivo. Il sentiero si muove in salita e noi continuiamo a camminare nelle impronte di chi ci ha preceduto. Il vento muove la neve, disegna e gioca con le pendenze; alcune impronte scompaiono per poi riapparire dopo qualche metro.
Salito il sentiero ci affacciamo nel punto più esposto, il poco falasco non ancora inghiottito dalla coltre si contorce lasciandosi trapassare dalle raffiche. Gli alberi più in basso sono sempre più inquieti, sanno però di essere architetture studiate per resistere. Gli alberi nascono con nozioni di ingegneria edile che noi studiamo nelle università. Sanno bilanciare i pesi senza rinunciare alla verticalità e conoscono i privilegi dei materiali flessibili.
Li guardo che si piegano e lo zaino perde altro peso.
Il tempo è in peggioramento, la neve orizzontale brucia la pelle. Decidiamo di cambiare itinerario e di accorciare la strada evitando di passare per le creste ghiacciate. Ormai l’occhio mi cade fisso sulle impronte che stiamo rincorrendo, anche loro hanno imboccato il sentiero che non sale di quota e che degrada di nuovo verso la pineta. L’inseguimento mi incuriosisce.
Scendiamo e il vento, appassionato di altezze, scivoli e rampe smette di seguirci per rimanere a divertirsi tre le creste e le cime che lo sfidano da sempre. Si lancia a caccia di velocità dalle pareti rocciose facendo vorticare manciate di coriandoli bianchi.
Rallentiamo il passo, mi ricordo di bere e riscaldo le falangi soffiando nei guanti. “I geloni alle dita sono un’eredità di tua nonna” mi ripete mia madre tutte le volte che mi ripresento a casa con le mani di ghiaccio.
Siamo ormai in una zona coperta, il vento è alle spalle che ulula divertito, ed ecco apparire le sagome. Mi sono inconsciamente affezionata a quei passi. Mi piace costruire storie, animare personaggi e già dalle impronte che uscivano dal camper avevo immaginato una coppia di montanari impavidi, con una coppia di pastori impavidi, che si era goduta una notte di vento, neve e voci selvatiche e che all’alba aveva provato l’ebbrezza di segnare la neve nuova con le prime impronte di uomo. Durante il cammino ho continuato a fantasticare sulle ragioni delle pause, dei passi più pesanti, di quelli più corti e delle deviazioni.
Erano davvero una coppia di montanari con due pastori tedeschi e avevano davvero passato la notte in camper all’imbocco del sentiero ma tra i motivi delle pause non avevo immaginato il lupo.
Tirano fuori un telefono ed ecco la ripresa di un lupo solitario, avvolto in uno splendido mantello invernale, che si allontana rapido risalendo il versante nella neve alta. I movimenti sono perfetti, non c’è spreco, non c’è errore ne passo incerto. È l’eleganza dell’istinto.
Li invidio e mi sembra che lo zaino sia ancora meno pesante.
Facciamo insieme l’ultimo pezzo di strada che ci riporta all’imbocco del sentiero e ci salutiamo. Mi infilo in macchina e da rito sciolgo la treccia in cui avevo protetto i capelli dal freddo e dal vento. Mi piace liberarli: se sono abbastanza intrecciati e segnati da umidità e sudore significa che la giornata è stata buona.
Scendendo in macchina verso Ussita lo sguardo indugia sulle macerie del 2016. Abbasso il finestrino: la neve si stava posando dentro alle case sventrate. Poi mi arrivano voci argentine. Su un colle innevato una banda di bambini con genitori custodi si lancia forsennata con padelle e slittini. Fanno uno dei giochi più vecchi del mondo, imparato guardando il vento che si tuffa nelle valli.
Proseguiamo, stiamo andando a trovare un’amica. Ussita è uno dei comuni dei monti Sibillini colpiti duramente dalle scosse del 2016, è un comune sparso, formato da frazioni anche lontane e isolate fra loro, più o meno abbarbicate sulle pendici dei monti intorno al bastione di roccia del Bove. Il mondo della civiltà appenninica era in crisi per lo spopolamento già prima del sisma che ha inasprito una tendenza all’abbandono già in atto.
Ma chi resta c’è.
" La fonte nella neve"
Patrizia vive da sola in una SAE in cui si è traferita dopo che il terremoto ha distrutto la sua casa e struttura ricettiva nella frazione di Sorbo. Beviamo una tisana gustando la torta “Paolo da Visso” mentre la gatta gioca illegalmente con alcuni rami di pungitopo. Alcune parole di Patrizia mi colpiscono: scopro che le SAE sono state distribuite in tre diverse zone e che chi come lei abitava nelle frazioni più in quota e più isolate si è ritrovato a condividere lo stesso “quartiere”. Sono passati quindi dai piccolissimi nuclei abitati e dalle case sparse ad una situazione di vicinanza fisica e materiale del tutto nuova, consolidando proprio quel nucleo di resistenza che ancora abitava la montagna. Patrizia condivide la connessione internet, durante il tempo della nostra visita è passato un vicino a riportarle un ombrello e poi un altro a ricordarle un appuntamento. E io mi sono commossa immaginandomi questi fieri e indipendenti abitanti delle terre alte, scendere insieme dalle loro frazioni, un Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, con l’intento di resistere e imparare a sostenersi.
Lo zaino sulle spalle ora è davvero leggero.
Perché resistere? Perché abituarsi ad una terra che trema? Perché fare la fatica di inventare nuove soluzioni? Io penso che l’Appennino come terra di mezzo sia un perfetto campo di prova per un grande esperimento, la scommessa di una civiltà che sappia finalmente armonizzare gli opposti, e chi resta e resiste lo sa:
Non sarebbe reazionaria, ma rivoluzionaria con delicatezza.
La vorrei nostalgica, ma che si addormenti sognando il domani.
Affettuosa con le tradizioni senza volerle eterne.
Sarebbe super moderna ma sostenitrice dei ritmi lenti.
Al cospetto della natura non si sentirebbe mai esclusa e mai padrona; anzi: ne gioverebbe e porterebbe grande rispetto senza arrendevolezza.
Vivrebbe con umiltà senza scordare che i valori vanno nutriti con ambizione.
Non la immagino costruttrice di muri o confini, gli basterebbero i legami per sentirsi a casa.
Domani sui Sibillini il sole sorgerà ancora e illuminerà le creste; le valli verranno inondate dalle luci dell’alba e dalle ombre cadute dalle cime. Il vento calerà e aprendo le finestre ci ricorderemo di quanto siamo, fortunatamente, limitati. Allora ci tireremo su le maniche e per alleggerire lo zaino proveremo ad imparare la levità dall’aquila, a carpire i segreti dell’equilibrio del camoscio, della resilienza degli alberi e della fierezza del lupo. Contempleremo la potenza della tempesta, la mutevolezza dell’acqua e la gentilezza di una fioritura. E allora forse le montagne guarderanno verso il basso e si commuoveranno per la dignità e la forza d’animo con cui, senza autocommiserazione, affrontiamo la nostra fragilità