Serve una sensibilità acuta per apprezzare l’ambiente montano; per viverci e gradirne le asperità occorre anche altro. «Partita è sui venti ebra di libertà l’anima dolce e rude | di colui che cercava una patria nelle altezze più nude | sempre più solitaria»: questi gli ultimi versi con cui Gabriele D’Annunzio salutava un pittore che in montagna ci era nato, che la montagna l’aveva amata, l’aveva lasciata e infine l’aveva scelta, per poi morirci a soli 41 anni con queste parole sulla bocca: «voglio rivedere le mie montagne». Giovanni Segantini (Arco, 15 gennaio 1858 – monte Schafberg, 28 settembre 1899) la montagna l’aveva osservata abbastanza a lungo da comprenderne l’essenza, tanto da rendere quelle vette che appaiono nell’ultima fase della sua opera non lo sfondo, bensì le protagoniste delle sue narrazioni. La montagna si staglia infatti grandiosa e luminosa di fronte agli occhi dello spettatore e si contraddistingue come più di un mero pretesto per creare: quelle cime raccontano di un intimo sodalizio spirituale, culturale e naturale; un sodalizio che comprende bene chi sente lo stesso senso di appartenenza a quei luoghi, e che spesso si trova a doversi giustificare di questo attaccamento. Muti, desolati, e impervi, richiedono altrettanto silenzio, un buon grado di robustezza, di solitudine, e di rinuncia, se così si può chiamare. Sono luoghi-anfitrioni di piccole comunità, tanto chiuse in sé quanto accoglienti con chi sa meritarlo, talvolta così piccole da non ricordarne l’esistenza, generose e dalle dinamiche complesse, dalle fondamenta arcaiche, e fatte di ritualità antiche, delle cui radici non si ha quasi più memoria. La montagna di Segantini non è quindi mero elemento naturale, ma luogo culturale: è fatica, è il carattere duro come la pietra dei suoi abitanti, è la sincerità nel rapporto con la natura. Laddove davanti a quelle cime e sugli ampi pascoli non si inseriscono figure simboliche chiaramente reminiscenti di quelle dello Jugendstil (Le cattive madri, 1894), l’opera di Segantini si diletta a presentare quelli che sembrano reportage, scenari memori dell’arte del Realismo di Jean-François Millet, e, si oserebbe dire, corrispettivi artistici della fotografia documentaristica. Raffigura così laghi alpini circondati da bestiame, pascoli, scene di vita quotidiana e agreste, passeggiate, lavoro fisico: un pastore si riposa su un sasso, la stessa schiena ricurva della donna che torna dal bosco trainando una slitta ricolma di legna da ardere; una donna vestita di un azzurro acceso si distrae per un attimo dal suo gregge, e, portandosi una mano sulla visiera del cappello di paglia, guarda in lontananza.
Ritorno dal bosco, 1890.
Vita, 1896-1899
È un’arte consapevole, dunque, senza ornamento, ma la pacatezza fa da sovrana: il rumore e i sospiri della fatica sono ovattati e immaginari, così come il chiacchierare di due figure che scendono dal sentiero che si dirige verso una malga poco lontana, come se solo il paesaggio, con quelle sue immense valli e quegli altipiani, bastasse ad acquietare ogni affaticamento, ogni angoscia, ogni lamento di una vita laboriosa e isolata. Tutto si risolve nel silenzio, onnipresente lassù, dove l’aria è più trasparente, il cielo di un blu puro e accecante, e dove la luce del sole indugia con piacere sulle punte di quelle cime, fino a farle arrossare. Era l’accostamento di colori puri e complementari e le pennellate striate, quell’ingegnosità tecnica che affinò soprattutto dopo l’aderimento alla corrente del Divisionismo, che gli consentiva di ottenere «la luce, l’aria, la verità»: la loro raffigurazione era il fine ultimo della sua arte, e, forse, il pretesto per trasferirsi tra le valli svizzere, perché è lassù, tra quelle cime, riportando le parole del pittore, «che fissai più arditamente il sole, che amai i suoi raggi e li volli conquistare; fu qui che più studiai la Natura nelle forme sue più vive e nel colore suo più luminoso».
Morte, 1896-1899.
Natura, 1896-1899.
Ritorno al paese natio, 1895.