Questo nuovo bestiale articolo pone l’attenzione su due specie animali che vengono spesso erroneamente confuse, il riccio e l’istrice, accomunate (ed acuminate!) dal loro aspetto esteriore. Il secondo nome del riccio, “porcospino”, è stato di frequente attribuito anche all’istrice, ed è proprio questo inconsapevole scambio di identità che sta alla base del malinteso tra due animali in realtà molto diversi tra loro: se infatti il riccio è un insettivoro, l’istrice è invece un roditore, il più grande in Italia e uno dei più grandi al mondo, superato solo dal capibara sudamericano (Boitani; 1989). La caratteristica che ha reso note queste due specie animali ha decretato anche il loro destino nella simbologia e nelle culture antiche e moderne.
Noi, per quanto possibile, cercheremo di riportare notizie riguardo al riccio e all’istrice come due creature distinte ma vedremo ben presto che negli elementi di cultura popolare a noi pervenuti ed in molti testi antichi questa distinzione cesserà di esistere.
Tra i pochi autori che trattano separatamente il riccio dall’istrice troviamo Plinio che, nella Naturalis Historia, riporta notevoli informazioni riguardo le due specie nella cultura latina. Sembrerebbe che il riccio avesse un ruolo importante per la divinazione: il 2 febbraio di ogni anno gli antichi romani cercavano di prevedere l’arrivo della primavera guardando il riccio uscire dalla sua tana; se il riccio avesse visto la sua ombra e ne avesse avuto paura l’inverno sarebbe durato altre sei settimane, altrimenti segnalava l’arrivo prossimo della bella stagione. L’usanza, che cade nel giorno della Candelora, è rimasta in uso nel nord America dove il riccio è stato sostituito dalla marmotta e che celebra quindi il Groundhog Day.
Nell’antico testo della Bibbia troviamo un passo (salmo 104, che descrive la gloria di Dio nel Creato attraverso la magnificenza della natura) che dipinge un paesaggio popolato da esseri vegetali ed animali (il cedro del Libano, i cervi, i piccoli leoni) ritratti nel loro ambiente e che agiscono secondo la loro predisposizione naturale. Tra questi leggiamo “Gli eccelsi monti sono per gli stambecchi, agli iràci sono dimora le rocce”. Primo tra una lunga schiera di uomini che si sono interrogati su tale nomenclatura naturalistica, San Girolamo prova a chiarire la questione degli iràci biblici, sostenendo che si possano definire iràci quei piccoli roditori che compaiono nel salmo a causa di un complicato passaggio lessicale dall’ebraico al greco. San Girolamo dà quindi una versione latina (“Petra refugium herinaciis”, la roccia è rifugio per i ricci) che chiarifica l’identità del discusso abitante delle rocce. Anche Sant’Agostino riprende più volte il salmo in questione durante il Medioevo, e ne dà una lettura cristiana che giustifica la presenza ed il comportamento del riccio in natura; secondo Agostino, infatti, la roccia in cui si rintana il riccio è il riparo che il Signore offre al peccatore che si umilia, il luogo in cui pentirsi dei propri peccati rappresentati, evidentemente, dagli aculei.
Oltre a queste interpretazioni, che accolgono una visione tutto sommato positiva del riccio ed affine all’immagine dell’anima dell’uomo cristiano, abbiamo una linea guida sulla funzione simbolica del piccolo mammifero che parte dal II secolo circa ad Alessandria d’Egitto e, passando per Plinio, si solidifica in una caratterizzazione univoca che accompagnerà tutti i bestiari europei medievali. Questa caratteristica predominante del riccio, che andremo tra poco a descrivere attraverso uno dei bestiari più moderni e quindi più completi di cui disponiamo, ha una tradizione lunghissima che parte dal Physiologus, capostipite del genere datato intorno alla seconda metà del II secolo e scritto in greco. Al Physiologus si sono integrati nel corso dei secoli le notizie tratte dalle opere di Plinio, Eliano, Isidoro di Siviglia ed altri, diffondendosi al di fuori del mondo bizantino. Se ne ritrovano versioni nelle lingue etiopica, copta, siriaca, araba, armena, bulgara, slava, nei linguaggi germanici (in alemanno, “Discorso degli animali”, della metà del secolo XI; in tedesco medievale,”Libro degli animali e degli uccelli”, ca. 1120-30). Da queste fonti nacquero i veri e propri bestiari d'ispirazione originale, come quelli di Philippe de Thaon, di Alberto Magno, di Guillaume le Clerc, oppure quelli inseriti in opere di carattere enciclopedico, come lo Speculum universale (o maius) di Vincenzo di Beauvais, il Trésor di Brunetto Latini, L'Acerba di Cecco d'Ascoli.
In tutti questi passaggi sottoposti ad alterazioni e contaminazioni, la simbologia del riccio rimane pressoché invariata e ne crea un ritratto negativo, molto lontano dall’immagine che ne abbiamo oggi:
“Il riccio, che ha la tana nei boschi e nei cespugli, è scaltro e agisce abilmente quando è in cerca di cibo. A piccoli passi si reca in una vigna dove l’uva è matura; tanto fa, e bene, che riesce ad arrampicarsi là dove l’uva è più abbondante, e la scuote così forte che i chicchi cadono copiosi. Quando sono sparsi sul terreno, il riccio ridiscende e vi si rotola sopra mettendosi sulla schiena, in modo che l’uva vada a conficcarsi negli aculei, che sono molto sottili. Dopo essersi ben caricato, se ne torna tranquillamente nella sua tana, dove stanno i piccoli. E per tutta la stagione delle mele, si comporta allo stesso modo... Uomo, buon cristiano, tu che sei provvisto di ragione, non dimenticare questo esempio, stai bene attento al riccio, traditore, furbo e crudele: è il Diavolo che cerca senza sosta di trarre gli uomini in inganno. Se hai compiuto qualche buona azione, il Diavolo aspetta con impazienza il momento in cui può tradirti ed indurti in tentazione, per poi saziarsi di te, guastare il tuo frutto spirituale e guastare la tua vigna e il tuo meleto. È così che ti salta addosso da ogni parte” (Guillame Le Clerc, Le bestiaire divin, 1210 ca.).
Il ritratto che ne fanno i bestiari medievali è quello di un ladro che, come il cinghiale biblico, “devasta le vie del Signore” (Pastoureau; 2012).
Come accade a molti altri poveri malcapitati, il riccio nel medioevo compare incluso anche negli elenchi degli ingredienti impiegati per la preparazione di miscele medicinali empiriche in molti paesi dell’Europa.
Dell’istrice sappiamo invece che ha una storia millenaria, confermata dai reperti fossili rinvenuti ascrivibili a questa specie e risalenti al periodo del tardo Pleistocene, quindi oltre 11,700 anni fa. Per molto tempo si è creduto che fosse una specie autoctona dell’Africa settentrionale e che fosse arrivata in Italia trasportata dai Romani, i quali se ne servivano per gli spettacoli ludici, sorte che per molti altri animali ad oggi è rimasta immutata. In effetti l’Italia è l’unico paese europeo dove si può trovare l’istrice, specialmente diffuso nelle aree centro-meridionali ma che si sta diffondendo anche in alcune zone del nord, rimanendo comunque sempre confinato entro la barriera alpina. Negli ultimi anni si è sviluppato un intenso dibattito scientifico che ha visto contrapporsi le teorie dei zoologi che sostengono la tesi della reintroduzione più recente della specie in seguito all’estinzione dovuta alle ripetute glaciazioni del Pleistocene e quelle degli studiosi che sostengono invece che la specie sia sopravvissuta alle stesse glaciazioni e, come confermato dai reperti, risulterebbe così autoctona.
Forse la leggenda più antica che accompagna la temuta figura dell’istrice, raccontata già da Plinio nella Naturalis Historia e che rimarrà nella cultura popolare fino ai nostri giorni, vuole che se l’animale dovesse sentirsi minacciato, avrebbe la capacità di scagliare lontano i suoi aculei semplicemente tendendo la pelle, come dardi di difesa. Appurata l’infondatezza scientifica di questa leggenda, c’è da meravigliarsi di come fosse talmente diffusa e conclamata da diventare addirittura il motto e l’emblema del re di Francia Luigi XII. Lo stemma reale rappresenta infatti un istrice coronato affiancato dal motto “Cominus et eminus”, ovvero “da vicino e da lontano”, sottinteso “colpisco”. Paolo Giovio scriverà sul Dialogo dell’imprese militari et amorose di come si dovesse interpretare la minacciosa sentenza: “Per il che [il Re di Francia] dimostrava che l’arme sue eran pronte e gagliarde da presso e da lontano”.
Il fatto che si credesse che gli aculei venissero scagliati dall’istrice come arma difensiva è dato probabilmente dalla facile reperibilità degli stessi che, per loro natura, non sono altro che peli modificati e, come tutti i peli, dopo un certo periodo cadono per essere rimpiazzati, lasciando abbondanti segni del suo passaggio (Boitani; 1989). È un fatto risaputo che già nel Medioevo gli aculei dell’istrice venissero impiegati come utensili per scopi vari, ad esempio nell’esecuzione delle linee più sottili nei manoscritti miniati.
Gli aculei, quindi, sono stati sempre il nucleo su cui sono formate le varie leggende su entrambe le specie animali ma, oltre al curioso timore che possano aver suscitato nello sguardo diffidente dell’essere umano, quali altre interpretazioni si possono dare del fenomeno? Secondo Giuseppe Bellucci, il valore apotropaico di cui gode l’istrice (ed in modo minore anche il riccio) deriverebbe “dal numero indeterminato di aculei” (Bellucci; 1908). La teoria di Bellucci rimanda a quel contesto di credenze magiche per cui si potrebbe prevenire la fascinazione facendo in modo che le streghe siano impegnate nottetempo nella conta di un numero indefinibile di oggetti, meglio ancora se di piccole dimensioni, atti allo scopo di far sorprendere la donna dalle prime luci del giorno e farla fuggire prima che ella abbia messo in atto il suo maleficio. Del porcospino erano considerati potenti amuleti contro l’invidia la zampa oppure la mandibola, da portare attaccata al collo. Nel Leonessano, così come in molte zone dell’Appennino umbro-marchigiano, si usava portare addosso la mandibola (ganassòla) dell’istrice (spinosa) per preservarsi dalla fascinazione e dalle oscure malie delle streghe. All’occorrenza valeva anche la mascella del riccio comune. Oltre ciò, bisogna comunque tenere presente che gli aculei, in quanto elementi di difesa e di offesa, partecipano intensamente, per la legge dell’analogia, al prestigio degli oggetti atti a garantire la difesa magica della persona contro i nemici invisibili in accordo al criterio, universalmente diffuso, della magia simpatetica per cui le cose dotate di punte, spine, aculei sono atte a difendere (Polia; 2009).
Oggi, seppure certe pratiche e credenze non siano sopravvissute, assistiamo ad un continuo sterminio di animali selvatici sulle nostre strade trafficate, in cui ricci ed istrici figurano di frequente e che mettono in luce quei sacrilegi che inconsapevolmente o consapevolmente perpetriamo. Concludo così questa breve esistenza di due ammirevoli specie, con le parole di uno studioso che dice riguardo al sacrilegio: “Sacrilegio è profanazione, è mancanza di rispetto o di riverenza verso le cose e gli esseri. Sacrilegio è credere che una cosa o un animale siano soltanto una cosa o un animale, è dimenticare che tutti gli esseri si concatenano e si corrispondono per concorrere all’armonia universale e totale che è come riflesso dell’Unità divina stessa”
(Cattabiani; 2019).
Bibliografia:
Bellucci G., La grandine nell’Umbria, Forni, Bologna,( 1903) 1973
Boitani L., Le tracce raccontano, Mondadori, Milano, 1989
Cattabiani A., Bestiario, Iduna, Milano, 2019
Pastoureau M., Bestiari del Medioevo, Einaudi, Torino, 2012
Polia M., Tra cielo e terra. Religione e magia nel mondo rurale della Valnerina, volume II “Tematiche del pensiero religioso e magico”, Edicit, Foligno, 2009
Sitografia:
https://www.associazioneartedellamemoria.com/
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