SOTTO IL SEGNO DEL CINGHIALE

Scritto il 08 Gennaio 2024 da Virginia Gidiucci

Il cinghiale è l’animale selvatico più facile da incontrare per un essere umano, soprattutto per chi vive in ambiente montano o rurale. La specie è in forte espansione in tutta Italia già da qualche decennio, complice il forte senso di adattabilità e prolificità, che la quasi estinzione dei grandi predatori ha agevolato; ma il cinghiale a cui guardiamo oggi non appartiene più alla tradizionale razza italiana, ormai contaminata dai ripopolamenti effettuati dai cacciatori con animali provenienti dall’Europa centrale che hanno completamente soppiantato la popolazione autoctona. Di fatto, nella cultura popolare rimane un animale poco stimato, vuoi per il suo aspetto considerato generalmente poco gradevole, vuoi per gli ingenti danni che esso apporta alle coltivazioni. Se volessimo descrivere il cinghiale attraverso degli attributi comportamentali tipici dell’essere umano, potremmo dire che esso è estremamente caparbio, qualità che se da un lato gli consente di mettere da parte il timore verso altre specie per favorire la ricerca di cibo per la sussistenza anche in territori fortemente antropizzati, dall’altro ingigantisce la considerazione negativa sulla stessa specie.  

Le antiche popolazioni dell’Eurasia consideravano il cinghiale soprattutto a scopo alimentare. Nell’antica Roma erano state istituite delle riserve (leporaria) per l’allevamento e la caccia ai suini selvatici; i Romani consideravano il cinghiale la preda più ambita, una selvaggina nobile ma anche la più pericolosa da ottenere essendo la sua forza e il suo coraggio già più volte decantate nella mitologia latina.  Anche i Germani nutrivano un analogo timore reverenziale: uno dei rituali obbligatori per diventare uomini liberi consisteva nell’affrontare da soli un orso o un cinghiale, e questo può facilmente farci intuire il livello di ferocia che si attribuiva all’animale.  

Scena di caccia al cinghiale, mosaico, Villa Romana del Casale di Piazza Armerina

Con le invasioni dei popoli barbarici dell’Europa centrale, il cui sostentamento consisteva in gran parte nella caccia ed in minima parte nell’agricoltura, anche il concetto di caccia mutò nella cultura del popolo italico. Il cervo, già considerato dai Germani come un animale nobile, divenne una preda ambita ed elitaria; gli autori dei bestiari medievali riportano esattamente questo stravolgimento dei ruoli, descrivendo il cinghiale all’opposto del cervo e caricandone gli aspetti meno empatici. Non solo l’influenza delle culture nordiche ha tramutato la valenza simbolica del cinghiale nella società medievale; essendo considerato un animale nobile, infatti, richiamava l’attenzione di principi e signori che amavano mettere alla prova la propria forza e le proprie capacità con questo maiale selvatico in una caccia pericolosa che si conclude spesso con un corpo a corpo tra l’uomo e la bestia. Diversi furono i re morti in seguito alle ferite riportate negli scontri, così la Chiesa pensò di imporre il cervo, ben più innocuo, come selvaggina regale in sostituzione del cinghiale (Pastoureau; 2012).

La caccia al cinghiale, bestiario latino, 1240 ca., Oxford, The Bodleian Library

Nelle antiche enciclopedie e trattati naturalistici l’unica virtù attribuita a questo animale è il coraggio che gli consente di combattere e difendere sé stesso e la sua prole fino alla morte; proprio questo coraggio decantato dai poeti romani si trasforma in violenza cieca e distruttrice nei bestiari medievali degli autori cristiani. Per questi il cinghiale è l’incarnazione di tutti i vizi: è brutto, nero, irsuto, puzza, è rumoroso e vive nelle tenebre, il che lo rende una bestia demoniaca salita dagli inferi per tormentare gli uomini. Inoltre è estremamente sporco e gli piace sguazzare nella melma. La sua arma principale sono le due enormi zanne, che affila sfregandole contro un albero e rafforza masticando un’erba magica “piena di ferro e fuoco”: l’origano. La sua pessima vista lo costringe a procedere in linea retta distruggendo ogni cosa al suo passaggio, schiuma per la collera un liquido velenoso e pesta il suolo con tanta violenza che non permette a nulla di rinascere. Come il maiale domestico non guarda mai verso il cielo  stando sempre a testa bassa a frugare nella terra in cerca di cibo; è quindi la raffigurazione degli uomini lascivi che pensano solo ai piaceri materiali e non rivolgono lo sguardo al Signore. Del resto, il suo atteggiamento distruttivo è menzionato anche nella Bibbia quando è scritto che il cinghiale “devasta” la vigna del Signore (Sal 80) (Pastoreau; 2012).

Un monaco tormentato dai diavoli invoca la protezione della Madonna, da Le Miroir historial di Vincent de Beauvais (1463 ca.)

Eppure, nell’agiografia dell’Europa cristiana medievale si assiste ad una riconsiderazione del maiale, che si affianca a diverse figure di santi. Tra tutte la più nota e la più celebrata è la figura di Sant’Antonio Abate, oggi patrono degli animali domestici e che si festeggia il 17 gennaio con cerimonie religiose e folcloristiche ancora molto sentite. 
La vita del santo è stata resa nota da Sant’Attanasio, suo discepolo e primo biografo ma è grazie a Jacopo da Varagine ed alla sua Leggenda aurea (del XIII secolo) che si stabilì la versione popolare che avrebbe influenzato l’iconografia del tardo medioevo e dell’età moderna.  
Antonio nasce intorno al 255 in una famiglia dell’Alto Egitto; alla morte dei genitori il giovane abbandona tutti i suoi beni per seguire la chiamata di Cristo ed isolarsi nel deserto. Qui, come il Cristo, anche Antonio fu più volte vittima delle tentazioni del demonio nelle sue apparizioni sotto forma di donne seminude e lascive e, come riportato da Attanasio, assumendo le sembianze di feroci fiere per terrorizzarlo. Antonio non cedette mai alle allucinazioni demoniache e riuscì sempre a respingere vittoriosamente gli assalti di Satana. Per tutta la sua vita rimase saldo nella sua fede e nella sua decisione di vivere da asceta e da eremita. Più l’età avanzava, più cresceva il bisogno di solitudine: per evitare qualsiasi contatto con i suoi simili, Antonio si rifugiò in un deserto irraggiungibile dagli altri uomini in cui morì all’età di 102 anni. 

Le tentazioni di Sant’Antonio, Hieronymus Bosch o seguace, 1500‐1525

Tra le fiere citate da Attanasio figurano il leone, il lupo, l’orso, il toro, l’aspide e lo scorpione. Non è mai menzionato il maiale, eppure le prime immagini occidentali che trasferirono la solitudine di Sant’Antonio nel deserto d’Egitto alla foresta europea inclusero progressivamente tra le bestie feroci anche il cinghiale. Col passare del tempo nelle iconografie gli animali rappresentati si riducono a due: il lupo e il cinghiale, entrambi temuti ospiti delle foreste. Dopo l’anno Mille il lupo scomparve del tutto e lasciò posto al cinghiale, ad incarnare il bestiario infernale. L’iconografia prendeva dunque decisamente le distanze dai testi agiografici, soprattutto dal più autorevole, la vita scritta da Attanasio, che non aveva mai menzionato il maiale selvatico. Tali distanze si fecero ancora più significative quando, tra il XII e il XIII secolo, il cinghiale nelle immagini si trasformò in un maiale domestico. Non si trattava di un cambiamento solo iconografico ma anche semantico e simbolico: se prima il cinghiale era l’incarnazione di una fiera feroce e demoniaca che aveva come obiettivo minare la fede del Santo, ora il maiale diveniva il fedele compagno dell’uomo, un animale affezionato e protettore capace di condividere con lui la vita, i pasti e le preghiere (Pastoureau, 2010).

Ma come è potuto avvenire questo netto cambiamento? Ogni risposta che si possa dare non sarebbe comunque una certezza, ma è possibile che la storia dei confratelli dell’ordine degli antoniani abbia condizionato le leggende e l’iconografia. Il maiale ha avuto una valenza talmente importante per gli antoniani che senza troppi problemi potrebbe aver soppiantato la figura dell’altro suide selvatico nell’agiografia e nel folclore. Riguardo al culto del santo, le cui reliquie furono traslate dopo la metà dell’XI secolo da Costantinopoli in un’abbazia a La Motte‐Saint‐Didier, vicino Vienna, questo si diffuse soprattutto nel 1090 in tutta la valle del Rodano, quando piombò sulla regione una terribile epidemia che generava una particolare forma di epilessia poi chiamata “fuoco di Sant’Antonio”; il Santo divenne così un guaritore assai venerato ed accanto all’abbazia fu eretto un ospedale gestito da un ordine detto “di Sant’Antonio” o degli “antoniani” i quali, oltre alle opere di carità, si dedicavano all’allevamento di maiali dei quali il grasso costituiva un rimedio apparentemente efficace al male epidemico che imperversava. Grazie a questo attributo, in molte città i fratelli antoniani ottennero il permesso di lasciare vagare i suini (riconoscibili da una campanella attaccata al collo) nelle strade e terre comuni dove frugavano tra i rifiuti con il loro grugnito.  
Ormai il legame tra Sant’Antonio e il maiale domestico è diventato un simbolo riconosciuto in tutta la cristianità e che ha dato origine ad un’ampia serie di immagini ed opere d’arte fino ai giorni nostri, stabilendo il Santo come protettore degli animali domestici ed il maiale come l’esempio archetipico dell’animale compagno di vita dei santi.

BIBLIOGRAFIA:
“Animali celebri. Mito e realtà”, M. Pastoureau, Giunti, 2010
“Bestiari del Medioevo”, M. Pastoureau, Einaudi, 2012

Virginia Gidiucci

Virginia Gidiucci nasce nel 1989 a San Benedetto del Tronto dove vive tuttora. Diplomata in Scenografia all'Accademia di belle arti di Urbino, lavora ad Ascoli Piceno come costumista per la Compagnia dei Folli. Grazie alla sua passione per la montagna...
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