Il Gatto

Scritto il 19 Gennaio 2023 da Virginia Gidiucci

Foto: Gatti e topi in un manoscritto medievale conservato presso la British Library di Londra (dettaglio)

Diabolico, puzzu e mammone

Il gatto domestico, con cui molti di noi oggi condividono la vita, è tra le specie animali che fin dai tempi più antichi è rappresentata in compagnia di esseri umani e spesso all’interno delle loro abitazioni. Una concordia che sembra essere ormai stabilita, superando l’ostacolo caratteriale dell’animale indipendente attraverso il compromesso della disponibilità di un ambiente confortevole e dal vitto assicurato, che i gatti non sembrano disdegnare; al tempo stesso l’indole di predatore contraccambia l’ospitalità dell’uomo mantenendo lontani ratti ed insetti dall’ambiente domestico.

Se nella cultura egiziana, greca e romana, il gatto aveva una valenza molto positiva, con l’avvento del cattolicesimo anche la simbologia di questo animale venne offuscata da ipotetiche e distorte relazioni ed assunse così una connotazione negativa che, come vedremo, sebbene non mise mai del tutto a repentaglio l’esistenza della specie e la sua presenza nella vita quotidiana, in alcuni frangenti macchiò indelebilmente la sua figura nella percezione popolare. Questo non significa che cessarono i rapporti con l’essere umano, anzi durante il Medioevo la presenza di gatti in casa e nelle cantine è largamente testimoniata, come anche nei monasteri e nelle librerie, in tutti quei luoghi in cui l’uomo aveva bisogno dell’animale per preservare i beni dai roditori. “Il gatto tiene illibata la dispensa: sempre, però, se la dispensa non è stata visitata dalla gatta con cinque dita, che è la persona di servizio; o se la gatta stessa non visita la dispensa” (De Nino; 1881).

In opposizione all’evidente utilità pratica dei gatti ed al rapporto di affezione che già era diffuso, e, come è facile immaginare, in un clima di restrizioni ed oppressione da parte della chiesa cattolica su un tessuto sociale ancora “contaminato” dagli strascichi di una cultura pagana, nacquero delle superstizioni che hanno generato un seguito di negatività nell’immaginario futuro. Tra gli esempi più noti di questa propaganda anti-felina, San Domenico definiva il gatto un essere demoniaco, così anche papa Gregorio IX che in una bolla del 1233 considerava il gatto, in particolar modo quello nero, l’incarnazione di Satana. Il gatto nero si credeva fosse una presenza fondamentale nei sabba stregonici, e che l’evocazione del demonio stesso avvenisse quando una strega o stregone baciavano il suddetto gatto... ehm... sotto la coda. Di conseguenza , cominciò ad essere associato alle donne accusate di praticare la stregoneria ed arrivò ad essere considerato reato avvicinare i gatti e dare loro ospitalità. Per scongiurare il pericolo di avvicinare inavvertitamente una strega trasformatasi in gatta o un qualche altro tramite diabolico, papa Innocenzo VIII emanò nel 1484 una bolla (“Summus Desiderantes Affectibus”) con la quale scomunicava tutti i gatti (!). E’ indicativo il fatto che Alano di Lilla (“Contro gli eretici”, I, 63) avesse fatto derivare il termine cataro da gatto (“a cato”), poiché, secondo diffamazione diffusa, quegli eretici adoravano il demonio sotto forma di gatto (Cattabiani; 1995). Edward, duca di York, nei primi anni del XV° secolo scriveva: “La falsità e la cattiveria (dei gatti) sono ben note. Ma una cosa oso pure dire, che se vi è un animale che ha in sé lo spirito del diavolo, senza dubbio questo è il gatto, sia esso selvatico o addomesticato”. Certamente queste superstizioni sono rimaste impresse nella culturale popolare ed hanno viaggiato per secoli di pari passo con l’immutabile fascino che il gatto suscitava e continua a suscitare nell’essere umano.

In molte culture il gatto è rimasto associato alle donne (nell’Abruzzo del XIX° secolo il detto “la hatte tè’ sètte spirete” è usato sia per gli animali che, in modo ironico, per le donne (Finamore; 1894) e numerosissime sono le testimonianze dello scorso secolo sulle trasformazioni di streghe in gatte. E’ interessante che capogatto nel contado perugino fosse uno dei nomi del demonio (Zanetti; 1892). In Abruzzo uno dei personaggi che dettano l’incubo al dormiente ha l’aspetto di un grosso gatto nero (Galanti; 1961). Secondo le credenze popolari la trasfigurazione da strega a gatto, preferibilmente di genere femminile, avveniva per vari motivi ovvero per consentire alle streghe di introdursi nelle case delle loro vittime o per raggiungere le persone care, come nel caso delle giovani apprendiste che, una volta trasformate, si recavano a far visita ai loro fidanzati nei lontani luoghi delle transumanze. Solitamente le donne che venivano additate come streghe, erano donne anziane e imbruttite, quelle donne rimaste sole o che mai avevano avuto compagnia, le donne stravaganti, oppure giovani belle e ribelli che davano adito alle dicerie paesane. Una testimonianza di Corbara di Montegallo racconta: “Il fatto è avvenuto a Castro: una, su a Castro, c’aveva la socera. Dice che tutta la notte il ragazzino piangeva. Una notte è andata là e se n’è accorta e ci ha trovato un gatto grosso. L’ha preso a bastonate, l’ha rotto tutto, l’ha massacrato, l’osso tutto rovinato. A la matina, quanno questa s’è alzata, ha visto la socera che non s’alzava: “Com’è che questa non s’alza?”. Quanno è andata là la camera, je ha detto: “Come mai non ti alzi?”; “Come faccio a alzarmi? Guarda un po’ che mi hai fatto stanotte: m’hai massacrato!”; “Io so mmazzato lu gattu, mica a te!...”; “Invece era io” (Polia; 2011). Altre testimonianze ci informano di come si poteva riuscire a guarire una strega (o un lupo mannaro), cavando dal loro corpo un po’ di sangue, come quella di un’anziana di Montemonaco che racconta di come una donna, mentre sorvegliava il sonno del suo bambino pieno di lividi procurati dalle incursioni notturne di qualche essere magico, colpì un gatto salito di notte sulla culla con un pettinino da canapa che lo ferì e lo fece scomparire all’istante, per scoprire poi che era un qualche famigliare trasformatosi in felino. Testimonianze come queste sono numerose e diffusissime nella zona dell’Appennino umbro e marchigiano, somigliandosi talmente tanto da essere a volte perfettamente compatibili. Un altro racconto decisamente curioso è stato documentato dall’antropologo Mario Polia che riporta più di una testimonianza ; lo stesso racconto è stato raccolto sia ad Ocre, nel leonessano (De Concini, Polia; 1991) che a Castelluccio di Norcia: “ ‘Na volta ‘na zia me raccontò che era tanto freddo, là de fori c’era tanta neve, e sentiva due gatti che miagolavano, miagolavano, miagolavano. “Ma ‘sti gatti – dice – se moreno de freddo, bisogna falli entrà” e li fece entrà ‘sti gatti e je mise ‘n poco de mangià a ‘sti gattucci. E poi “Non falli uscì – disse – falli sta’ qua dentro”. Se n’è annata a dormì’. Quann’e la mattina, ‘sti du’ gatti non c’erano più, erano spariti e il mangià’ stava lì per terra, no’ l’aveano mangiato. Allora pensavano le cose malamente, pensavano ‘ste streghe. Allora, quanno ‘n periodo dopo, un periodo de tempo dopo, so’ andate a Visso, a Visso s’annava a piedi in tempi de prima, e quanno che là a Visso, ‘sta signora che era sdrega (...) ha riconosciuta questa che l’avea ospitate la notte, dice “Vieni ‘n po’ a casa mia, vieni ‘n po’ a casa mia”, dice e je misse da mangià’. “Ma come mai che me dai da mangià’ a me e io non te conosco chi sei, ‘nzomma?”. “Ah, non me conosci? – dice – te ricordi quella sera che eravamo io e un’altra, eravamo diventati gatti, e tu c’hai dato da mangià’, c’hai fatte entrà’...”. E nemmeno lei vorze mangià’” (Polia; 2009).

In Abruzzo troviamo anche qualche altra credenza popolare attribuita ai gatti ma estranea a questo ambito magico-demoniaco in cui li abbiamo visti ritratti fino ad ora; Finamore afferma che a Lanciano si credeva che il gatto “Perché riesca buono, non s’ha da acquistare né per danaro né per dono, ma dev’essere rubato”. In molte zone dell’Abruzzo si credeva che per addomesticare il gatto “gli si fa mangiare del cacio in una scarpa, e poi, tenendolo tra le mani, per tre volte si gira intorno alla catena del camino” (Finamore; 1894). La stessa pratica è riportata anche dallo studioso De Nino il quale dice che quando una donna vuole far abituare un gatto all’ambiente domestico “dall’archetta ella toglie, dunque, un pezzo di lardo; afferra una ciavatta; introduce il lardo nella ciavatta, e – Miscia! Miscia! – va verso il gatto, che ha rinculato in un cantuccio della stanza... Ma come esso sente l’odore del lardo, si rabbonisce, si avvicina, afferra l’esca e ingoia. Allora la donna apre la porta e il gatto fugge. Ma tornerà.”; gli atteggiamenti del gatto domestico, riferisce sempre lo studioso abruzzese, a volte vengono interpretati come pronostici: “Quando il gatto sta appresso al focolare e si lecca, e col zampino va al di là dell’orecchio, annunzia che si avvicina il tempo cattivo” (De Nino; 1881).

Al museo civico di Recanati si può fare la conoscenza di un gatto molto famoso, che ha fatto discutere i critici d’arte e sulla cui simbologia ad oggi non si è arrivati a nessuna spiegazione certa. Il gatto in questione è quello che compare al centro dell’Annunciazione (1534) di Lorenzo Lotto, la cui presenza rimane così fortemente evocativa che concorre a rubare la scena al soggetto stesso dell’opera. L’atteggiamento impaurito ed inferocito del felino striato ha suscitato da subito un rimando alla simbologia del gatto in epoca medievale di derivazione cattolica, che ha portato qualcuno ad ipotizzare il gatto come un intruso demoniaco che tracolla alla vista dell’entità divina, inteso nel contesto del dipinto esclusivamente come un tramite decorativo attraverso cui l’artista sintetizza il trionfo del bene sul male con la notizia dell’imminente nascita di Cristo. La presenza di un gatto in casa della Vergine non era un fatto nuovo per l’epoca, il riferimento più semplice che si possa fare è all’altro gatto già presente nel rilievo marmoreo dell’Annunciazione (1522) di Andrea Sansovino collocato nella basilica di Loreto, il quale però mostra un atteggiamento decisamente più indifferente del suo successore ad olio su tela. All’origine di questo curioso accostamento potrebbe facilmente esserci una leggenda molto nota nella tradizione marinara di Venezia, la quale voleva che ogni gatto fosse un diretto discendente di quello che partorì nella casa di Maria la notte dell’Annunciazione, credenza che comunque ha molto aiutato la condizione e la considerazione dell’animale. Forse potrebbe essere questa una plausibile giustificazione della presenza dell’animale nella rappresentazione del pittore veneto, il quale raffigura il gatto in un impeto inquietante ed ironico al tempo stesso, un atteggiamento che caratterizza la natura stessa dell’animale e che crea empatia con l’osservatore libero da preconcetti.

Se il gatto di Lorenzo Lotto è stato ammirato da migliaia di occhi nella sua lunghissima ed immobile esistenza, c’è un altro gatto, anzi, più propriamente una particolare specie di gatto, che da secoli rifugge al contatto visivo con l’essere umano ed il cui incontro è diventato una vera e propria sfida per i naturalisti: il felis silvestris. Il gatto selvatico, noto nelle Marche con il nome di “gatto puzzu” (forse da “pezzato”), della tradizione popolare assomiglia, sotto molti aspetti della morfologia, al gatto domestico. Sebbene le razze addomesticate presentino una grande varietà di forme e colori, la specie selvatica è di colore variabile dal giallo chiaro al marrone con strisce o macchie nere. Non sappiamo quanto delle credenze popolari legate ai gatti si riferiscano al felino addomesticato o al suo parente selvatico, ma è certo che l’uomo ha dato a questi animali le più singolari caratterizzazioni.

Un soggetto diffuso nelle fiabe e nella letteratura italiana è il cosiddetto gatto mammone che assume, di vota in volta, connotazioni diverse. Nel mondo delle fiabe il gatto mammone è un mostro immaginario, con forma di un enorme gatto dall'aspetto terrificante (Cresti; 2012). Tale gatto sarebbe stato dedito a spaventare le mandrie al pascolo e avrebbe avuto movenze ed espressioni demoniache (Caprettini, Perissinotto, Carlevaris, Osso; 2000). ll suo verso sarebbe una via di mezzo tra un ruggito e un miagolio. Il mostro sarebbe tanto furtivo da assalire le vittime ignare e sbranarle senza lasciare neppure le ossa (Cresti; 2012). Pur non avendo nessuna certezza sull’origine del termine “mammone”, in Sardegna è diffuso, nei toponimi relativi a fonti e sorgenti, il termine Maimone (una antica divinità nuragica legata all’acqua). In alcune località, come a Sarule, nella Barbagia di Ollolai, su Maimòne è un fantoccio dalle sembianze grottesche feline, personificazione del Carnevale, e Martiperra, personificazione del Martedì grasso, è concepito come un gatto di gigantesche dimensioni, malevolo contro chi tenti di lavorare nel giorno di festa. Il gatto mammone compare come animale fantastico ne “La famosa invasione degli orsi in Sicilia” di Dino Buzzati, e, per mano dello stesso autore, in uno dei racconti ex-voto presenti nell’opera “I miracoli di Val Morel” (1971). Qui Buzzati riporta uno dei fatti avvenuti nel bellunese, alcuni dei quali possono situarsi al confine tra reale e fantastico, con intenti miracolosi che sarebbero da attribuire a Santa Rita da Cascia: “Ancora nel 1968 venne comunicata ai giornali la fuggevole comparsa, in quel di Cesio Maggiore del Gatto Mammone, che si limitò a spaventare un gruppo di mucche al pascolo. Ma la più parte dei naturalisti è incline a ritenerlo una pura fantasia. Dobbiamo dunque pensare che la signora Serafina Dal Pont sia rimasta vittima di una allucinazione? Già molto avanti in età, diciamo pure oltre i novanta, siamo riusciti a rintracciarla, nella fattoria di Faverga che da secoli appartiene alla famiglia. La sordità ha reso piuttosto precario il colloquio: tuttavia mi è parso di capire che la Dal Pont ribadisce con fermezza, quasi con rabbia, la verità dell’incidente, che avrebbe potuto avere tragiche conseguenze. A sentir lei, Santa Rita sarebbe comparsa sotto forma di un grossissimo topo il quale distrasse l’attenzione del mostro che si mise a inseguirlo attraverso la campagna, sottraendosi ben presto alla vista” (Buzzati; 1971).

Bibliografia:
Beccaria G. L., “I nomi del mondo, santi, demoni, folletti e le parole perdute”, Einaudi, Torino, 1995 Buzzati D., “I miracoli di Val Morel”, Mondadori, Milano, 2012 (1971)
Caprettini G. P., Perissinotto A., Carlevaris C., Osso P., “Dizionario della fiaba italiana”, Meltemi, 2000 Cresti M. C., “Fate e folletti della Toscana”, Lucia Pugliese editore, Firenze, 2012
De Concini E., Polia M., “Il paradiso del diavolo”, Sugarco, Milano, 1991
De Nino A., “Usi e costumi abruzzesi” vol. II, Tipografia di G. Barbera, Firenze, 1881 Galanti B. M., “Vita tradizionale dell’Abruzzo e del Molise”, Firenze, 1961 Finamore G., “Tradizioni popolari abruzzesi”, Edikronos, Palermo, 1981 (1894)
Zanetti Z., “La medicina delle nostre donne”, Foligno, 1978 (1892)
Polia M., “L’aratro e la barca, tradizioni picene nella memoria dei superstiti” vol. II “Il sacro quotidiano”, Lìbrati, Ascoli Piceno, 2012
Polia M., “Tra cielo e terra, religione e magia nel mondo rurale della Valnerina”, vol. II “Tematiche del pensiero religioso e magico”, Edicit, Foligno, 2009

Sitografia:
https://it.wikipedia.org/wiki/Gatto_mammone
https://www.treccani.it

Virginia Gidiucci

Virginia Gidiucci nasce nel 1989 a San Benedetto del Tronto dove vive tuttora. Diplomata in Scenografia all'Accademia di belle arti di Urbino, lavora ad Ascoli Piceno come costumista per la Compagnia dei Folli. Grazie alla sua passione per la montagna...
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