Il Lupo

Scritto il 30 Novembre 2022 da Virginia Gidiucci

Nell'immagine principale: Lupus, miniatura tratta da “Der naturen bloeme”, Jacob van Maerlant, 1340-1350 ca.

“LUPUS IN FABULA”

“Lupus in fabula” [il lupo nel discorso” (lett.)] è una locuzione latina usata proverbialmente al sopraggiungere di una persona della quale si stava giusto parlando, o alla quale si alludeva; l’espressione è comunemente riferita alla frequenza del lupo nelle favole esopiane, donde la traduzione usuale ma inesatta “il lupo nella favola” (Treccani). Proprio mentre mi accingo a scrivere queste poche righe sulla figura simbolica del lupo nella tradizione popolare, il Parlamento europeo, sotto la pressione di diversi gruppi parlamentari, è impegnato nella rivalutazione dello status del lupo come animale protetto, fino ad un possibile quanto temuto declassamento della specie nell’ambito della convenzione di Berna (per approfondimenti si rimanda alla pagina Facebook “Io non ho paura del lupo”). Il dibattito è in costante trasformazione e pare ancora lontano da un livellamento ideologico capace di soddisfare i bisogni degli allevatori e dell’ecosistema in cui vivono ed operano. Grazie alle sue caratteristiche predominanti nell’immaginario collettivo, il lupo è l’animale che più di tutti suscita emozioni ambivalenti nell’essere umano. Se è vero che oggi, in seguito al ripopolamento naturale della specie nell’Appennino umbro e marchigiano, sprigiona un forte fascino la sua presenza nelle aree interne e selvagge e che molti ne ricercano una visione, seppure fugace dato il suo carattere elusivo, per gli uomini che coesistono nel suo ambiente naturale questo fascino può facilmente tramutarsi in terrore. Il terrore, la paura verso ciò che non si conosce e non si può regolare, non è da colpevolizzare, bensì da canalizzare in una ricerca costante di nuovi sistemi di difesa, prevenzione e convivenza sul territorio.

Già nelle più antiche mitologie il lupo è stato l’emblema di una forza oscura, pericolosa, il nemico per eccellenza, legato regolarmente ad esseri demoniaci come nella mitologia nordica si lega a Fenrir, figlio di Loki e fratello di Hel, portatore di caos e oscurità. La paura del lupo è la paura primordiale dell’uomo verso le tenebre, quelle del bosco dove si aggira lontano dal territorio ordinato e conosciuto del villaggio, quelle dell’inverno e della gelida neve che per quasi sei mesi dell’anno castigava la dura vita delle genti dell’Appennino. Come recita una poesia, il lupo incarnava l’”odio antico”: l’odio dell’uomo nei suoi confronti antico come la povertà, la precarietà, l’emarginazione del pastore-contadino dell’Appennino centrale (Polia, 2002).

Presso molti popoli il nome del lupo non viene neppure pronunciato, poiché il farlo provocherebbe la sua apparizione; l’idea è ancora espressa in molti proverbi europei, per esempio il russo “basta menzionare il lupo che lui è già in casa” (nel lat. mediev. “mentio si fiet, saepe lupus veniet”) (Beccaria, 1995).

Nella “Naturalis Historia” Plinio il Vecchio parla della capacità del lupo di ipnotizzare l’uomo con lo sguardo, in accordo con la credenza popolare, ampiamente diffusa nei tempi antichi sino ai confini dell’Asia nord- occidentale, secondo cui l’incontro con l’animale avrebbe tolto la capacità di parola al malcapitato. Il lupo era ritenuto causa di crampi e paralisi alle corde vocali, una vera malattia, che in Francia ha preso il nome di “le mal de saint-Loup”. Ancora oggi, quando si incontra qualcuno privo di voce, gli si chiede “se ha visto il lupo” (Beccaria, 1995).

“Nelle gelide, interminabili notti d’inverno, prima che il dissesto dell’ecosistema e la spietata caccia ridussero il numero di questi nobili predatori fino alla loro quasi totale scomparsa, l’ululato del lupo giungeva dal bosco innevato. Come la voce di una sfida, la sfida della natura nei confronti dell’uomo e delle sue precarie sicurezze. Come un’oscura minaccia stringente d’assedio i villaggi immersi nel sonno. O il richiamo d’uno spirito malvagio. Si attribuiva al lupo errante nelle tenebre una velocità straordinaria nei movimenti che gli permetteva di compiere lunghissimi percorsi in breve tempo, come recita un proverbio locale:

“Lu jupu sampe storte

centu mija fa la notte.” (Polia, 2022)

 

Placare gli animi di quella gente privata del suo bestiame, unica fonte di sostentamento per alcuni, ed allontanare la paura da quegli uomini e donne inermi di fronte al cieco potere della natura era compito dei “lupari”. Il mestiere di luparo era senza dubbio duro ed assai pericoloso, non di rado questi venivano azzannati alle gambe o alle braccia durante l’uccisione dell’animale catturato, ma a suo modo redditizio; i cacciatori giravano con un lupo impagliato posto su un carretto, su una bicicletta oppure su di un asino e, muovendosi di villaggio in villaggio, sostava nelle piazze ricevendo compensi in natura come uova, pane, formaggio, un pezzo di salsiccia o qualche soldo.

Forse per esorcizzare questo terrore verso il temuto predatore, o forse per la grande volontà dell’uomo di cercare una soluzione al suo problema attraverso i pochi mezzi a disposizione, nacquero delle credenze popolari su ciò che avrebbe potuto tenere lontani i lupi da genti e bestiame.

Una testimonianza proveniente dalla Valnerina spiega di come si ritenesse il fuoco un efficace rimedio a tenere lontani i lupi dagli stazzi: “C’erano – ancora se dormia ‘n campaga co’ le bestie, co’ le vaccine giù la valle, oppure sui monti, ‘ndov’era – allora uno avea fatto il foco, perché era la sera e facea freddo, la notte dormiano fori, fatto ‘sto foco s’è messo a dormì’, c’avea ‘n cagnolino che era però ‘ncrociato col lupo (...) Ha visto che – c’era l’fosso, un torrente lì co’ l’acqua – ‘nnava là, se bagnava la coda e la spruzzava su ‘sto foco e lui faceva finta da no’ vedé’: “Vojo vedé’ che fine fa”. Pijava l’acqua là al fosso e la sgrullava lì sopra. Quann’ha spento ‘l foc, ha fatto ‘n gran urlo e non so quanti lupi ha chiamati. Il padrone s’è salvato pe’ poco, perché c’era ‘n albero lì. Sotto a quell’albero, la matina dopo quando chiamava aiuto, quelle bestie hanno rosicchiato anche ‘l fusto de la pianta. Questo lo raccontavano ch’è ‘n fatto vero. ‘Sto lupetto – perché so’ ‘nimichissimi del foco quelle bestie – fece ‘stu lavoro”. Tanto è vero che, a chi aveva timore di avvicinarsi al fuoco si diceva: “Che sei come ‘l lupo che c’hai paura del foco?” (Polia, 2009). Un’altra credenza, diffusa ovunque in Valnerina, vuole che i lupi abbiano timore della musica. “Una notte un suonatore d’organetto tornava da una festa verso Rocchetta. All’improvviso sbuca dal bosco un lupo e gli si avventa contro. Per la sorpresa e la paura, l’uomo cadde e, cadendo, l’organetto che portava a tracolla suonò salvandogli la vita poiché il lupo fuggì: “c’hanno tanta paura ‘ste bestie dei soni” (Polia, 2009).


Oggi non sentiamo più parlare di incidenti di questo tipo, vuoi per lo spopolamento umano delle zone montuose, vuoi per il ridimensionamento della presenza della specie in ambiente naturale; lo stesso animale appare sfuggente nell’incontro fortuito con l’essere umano e spesso un lieve rumore del passo basta a farlo fuggire lontano. Il dibattito costruito intorno alla figura del lupo è senz’altro un elemento utile e costruttivo per la conoscenza della specie e delle sue abitudini, ma anche ai fini di una evoluzione della convivenza con l’uomo nei luoghi in cui è avvenuto il processo di ricolonizzazione naturale , purché tale dibattito si basi su studi scientifici e non su voci di corridoio; i mass media e i social networks tendono fortemente a strumentalizzare l’argomento riportando notizie e conclusioni inesatte e quanto spesso pretenziose (!); non è raro, infatti, leggere commenti volti ad imputare la colpa al lupo per la sua indole carnivora o di non saper distinguere tra una preda selvatica ed una allevata dall’uomo, con l’unico scopo di creare un pericoloso sensazionalismo che porta sempre più consensi a questo crogiolo infernale di disinformazione e banale ignoranza. Eppure basterebbe sfondare le porte dell’ideologia impersonale, dell’egoismo e della infondata supremazia dell’uomo, per mettere il naso fuori dal nostro orticello ed ammirare la prospettiva di un ecosistema equilibrato e completo.

Bibliografia:
Beccaria G. L., “I nomi del mondo”, Einaudi, 1995
Polia M., Chavez Hualpa F., “Mio padre mi disse. Tradizione, religionee magia sui monti dell’alta Sabina”, Il Cerchio, 2002
Polia M., “Tra cielo e terra. Religione e magia nel mondo rurale della Valnerina” vol. II “Tematiche del pensiero religioso e magico”, Edicit, 2009

Virginia Gidiucci

Virginia Gidiucci nasce nel 1989 a San Benedetto del Tronto dove vive tuttora. Diplomata in Scenografia all'Accademia di belle arti di Urbino, lavora ad Ascoli Piceno come costumista per la Compagnia dei Folli. Grazie alla sua passione per la montagna...
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